Questo è un post che meriterebbe di stare, per argomento, su Fuorigio.co. Tuttavia, mentre lo scrivevo, è stato in grado di far riaffiorare ricordi ed emozioni da farmi decidere di pubblicarlo qui.Questo è un post per chi come me è cresciuto sulla coda degli anni 80 e ha fatto tesoro di quanto Amiga, Commodore, Atari, Capcom, SEGA e Nintendo ci hanno lasciato e fatto diventare.Lo spunto arriva da Sean Smith, un ragazzo di Atlanta, blogger e creativo di 22 anni. Una riflessione nella sostanza nemmeno troppo profonda, ma molto sincera e sentita.Come i videogiochi, averci giocato, averli affrontati con le giuste spiegazioni, averli compresi con il giusto discernimento tra finzione e realtà gli abbiano, o meglio ci abbiano, consentito di affrontare la vita, soprattutto quella lavorativa, con uno schema mentale differente.Ma soprattutto, ringraziare questo processo di apprendimento “parallelo” per averci fatto diventare ciò che siamo oggi. Così come Sean, difficilmente potrei immaginare ciò che sono in grado di fare oggi senza aver avuto la compagnia di un computer dall’età di 5 anni.E questo non significa esser cresciuto dentro quattro mura, all’oscuro dal mondo e dalla spensieratezza dell’infanzia. Come tutti anche io ritornavo con i vestiti sporchi di fango per aver giocato a calcio tutto il pomeriggio, con la tirata d’orecchie per essere rincasato dopo il tramonto.Tuttavia, gran parte del mio tempo lo dedicavo ai videogiochi, lo trovavo in qualsiasi modo, lo creavo invitando a casa mia gli amici, escogitavo il modo di fare pause tra uno studio e l’altro per superare i livelli, scappavo in mansarda ad ammirare un po’ stranito quell’aggeggio bianco con sopra la scritta Amiga 500 non sapendo bene come animarlo.Anche se la cosa che più mi ha avvicinato a questo mondo è stata l’area cabinati al bar dei miei genitori nel 1990. Provate ad immaginare un ragazzino di 7 anni con 7 cabinati, 1 flipper e l’accesso diretto alle monete da 500 lire nella cassa del bar. Dopo pochi mesi sapevo ogni trucco di Hammerin’ Harry, ho rischiato più volte di prendere botte da ragazzi 30enni che puntualmente stracciavo a Street Fighter con Blanka. Da qui in avanti è stata un’escalation: amavo Sonic alla follia, odiavo Super Mario con tutte le mie forze, ho bruciato la cartuccia di Rygar sul mio Atari Lynx, giocai e mi innamorai perdutamente nella primavera del ’99 a Metal Gear Solid. Il resto è storia recente.Tutto ciò ha influito solo positivamente sul mio modo d’essere e sulla velocità con la quale apprendevo le cose e il mondo che mi circondava. Da qualsiasi gioco sul quale posassi le mie mani sapevo di potermi portare via qualcosa, in modo totalmente inconscio, ma lo sapevo. Così come sapevo che si trattava di finzione, di una realtà altra dove vigevano regole differenti alle quali potevo prendere parte, ma solo per un tempo limitato. Tuttavia c’erano delle esperienze, delle meccaniche intrinseche al mezzo, fondamentali per la mia crescita.

Le innumerevoli partite in doppio a FIFA ’97 con il mio amico fraterno Alessandro. Una squadra debole a caso, il Cagliari, e via a farsi tutto il campionato solo per il gusto di comprendere come ragionasse l’intelligenza artificiale del gioco e vincere impegnandosi al massimo, adattando soluzioni differenti a seconda della partita, dell’azione, del momento. Dai primi sparatutto come Doom o Quake ho conservato il senso di immediatezza, la richiesta costante di una soluzione rapida altrimenti in ballo c’era la sopravvivenza stessa e il proseguo del gioco. La capacità di prevedere l’imprevisto dietro l’angolo grazie al primo Need for Speed Hot Pursuit su PC.O ancora l’impagabile esperienza avuta lo stesso anno della mia prima connessione ADSL circa 12 anni fa. Dapprima con Ultima Online sul computer, ma soprattutto da quando ho potuto collegare la mia Xbox ad Xbox Live iniziando a condividere esperienze, cultura, linguaggi con persone dall’altro capo della terra. I muri della mia stanza d’un tratto non esistevano più e il condividere la mia passione più fervida con il globo terraqueo mi sembrava la cosa più incredibile di sempre. Non era soltanto uno scambio di opinioni e di vedute, era una condivisione di talenti. Ricordo ancora mio papà a cena domandarmi con chi avessi parlato tutto il pomeriggio, pensando fossi impazzito e avessi iniziato a parlare da solo. Mentre ero connesso con il mondo.Schemi mentali, lavoro di team, molteplici soluzioni in momenti di altissimo stress, capacità di previsione, comprensione dell’ambiente circostante e conseguente adattamento, determinazione a raggiungere un obiettivo, lasciare da parte la gloria personale per potare avanti quella della squadra. Tutti concetti assimilabili dai libri o dall’esperienza. La mia, così come quella di tanti altri videogiocatori, è iniziata parecchio prima di molti coetanei.Ci potrei scrivere un libro su tutte le volte che venivo beccato a passare un livello di Halo invece di studiare per l’esame di Macroeconomia all’Università. Anche se devo essere sincero, ad oggi è stato molto più utile così. Per chi sono oggi e per la mia carriera.Immagino che come me e Sean in tanti abbiano oggi questo sentore, ma anche se così non fosse, se vi capitasse di tanto in tanto di sentire qualcuno esclamare:

…i videogiochi sono adatti solo a chi non ha voglia di fare molto nella vita, trasformano i ragazzini in bestie in grado di compiere stragi pluriomicida perché passano troppo tempo a giocare a GTA, i videogiochi trasformano le persone in ameba asociali…

Ecco.Tutte cazzate. Se avete dei figli, non fategli perdere questa opportunità, guidateli nel modo giusto e tra qualche anno ne vedrete i frutti. Passo e chiudo.