Questo è un post lungo, parla di come io e Noemi ci stiamo per imbarcare in un’avventura che rivoluzionerà per sempre le nostre vite portandoci a vivere dall’altra parte del mondo. E sì, 🐕 viene con noi.

Paura è la mia compagna di viaggio. Ha scandito spesso i momenti importanti della mia vita. Ci convivo da quando ho memoria. Era lì con me il mio primo giorno di scuola o quando, a 7 anni, ho subito un grave incidente e temevo il peggio. Divorava il mio essere ogni volta varcavo la soglia di ogni ospedale per sistemare i postumi proprio di quell’incidente nei successivi 10 anni. Mi assaliva prima di ogni compito in classe o interrogazione.

Al mio fianco in ogni scelta difficile della vita, dall’amore alle questioni lavorative. Lei sempre lì, a osservare ogni mia mossa. Ma nonostante fosse una presenza poco gradita, la mia compagna di viaggio è sempre stato uno stimolo, un bel calcio nella schiena per farmi buttare nei baratri più bui delle sfide quotidiane che, alla fine, hanno sempre avuto un risvolto positivo.

Ma questo percorso, lungo ormai 35 anni, è finalmente arrivato al capolinea, conscio del fatto che ormai Lei è finalmente sull’uscio di casa della mia vita, cappello in mano e pronta a salutarmi. Quello che rimane è soltanto il suo odore. Come quando una persona si è messa troppo profumo ed esce dalla stanza lasciando dietro di sé una scia, una presenza intangibile degli ambienti appena frequentati. E quell’odore per me equivale alle domande.

Le domande che mi hanno spinto e continuano a spingermi a chiedermi se sono all’altezza di certe situazioni, a prepararmi adeguatamente nel superare le casualità della vita, a provare a capirci qualcosa quando un’opportunità mi si para davanti. A chiedermi se sono abbastanza o se saprò adattarmi al nuovo contesto, qualsiasi esso sia.Paura si è portata via con sé spesso e volentieri la fiducia in me stesso, il farmi rendere conto delle mie capacità, di cosa sono in grado di essere. Immotivatamente e senza ragione. L’ho capito solo da poco tempo.

Queste domande sono talvolta al limite del paranoico e che mettono spesso a dura prova la sanità mentale di Noemi, ma del resto so essere l’unica in grado di saperle gestire e aiutarmi a superarle. Come dicono i Limp Bizkit del resto:

Does anybody really know the secret
Or the combination for this life and where they keep it?

Ma queste stesse domande sono anche quelle che negli anni mi hanno sempre permesso di tenere le orecchie tese, sempre in avido ascolto del mondo circostante. Sempre affamato di approfondire le mie passioni e pronto a salire sul treno che so passare in quel preciso momento, e che talvolta è anche quello giusto.

Quel treno è passato

Una doverosa premessa. Ho sempre avuto una profonda attrazione verso gli Stati Uniti. Senza citare necessariamente Arnold Alois Schwarzenegger e la sua mini serie su Netflix, ma ci sono state volte in cui mi sono sentito molto più spesso americano che italiano. Citofonare a casa Contino senior per avere conferme. E quando ne ho avuto l’occasione in passato, sia per lavoro che per piacere, ho cercato di andarci il più spesso possibile, soprattutto per ritrovarmi.

Non è uno stigma, è semplicemente la cultura di fine anni ’80 e ’90 inoltrati, profondamente imbevuta del liquido amniotico ricco della patina di libertà a stelle e strisce partorito per le nostre menti pre-adolescenziali. La fonte da cui mi sono abbeverato quotidianamente e che ha influenzato (e forse alterato) il mio giudizio, il mio gusto personale e le lenti attraverso le quali assistere allo spettacolo della vita durante il mio processo di crescita e sviluppo. Sono conscio, perfettamente conscio, della follia di alcune devianze culturali e culinarie statunitensi, ma questo non mi ha mai fermato dal vederli come il luogo dove giocarmi, prima o poi, una finestra temporale del mio futuro.

Prendo in prestito le parole di Martino Pietropoli di qualche numero fa inserite nella sua newsletter; esprimono bene il senso di chi come me è cresciuto a cavallo di quei due decenni:

Per la mia generazione l’America era un’esagerazione e un sogno, già dal nome: un paese così gonfio di sé da assumersi l’arbitrio di diventare grande come un continente. Scoprire l’America o Vivere il Sogno Americano sono stati per anni modi per definire una proiezione di futuro possibile e auspicabile, un augurio, un’idea di progresso, libertà, giustizia sociale. Per molti di noi, l’idea di America era monolitica ed era un faro splendente, stagliato su un orizzonte lontano ma visibile.

Gli USA non sono l’America ma sono una declinazione possibile di un continente ben più vasto, eppure per decenni sono stati una sineddoche continentale: il tutto diceva la parte, o la parte si appropriava del tutto.

Quando poi ci vai negli Stati Uniti, il sogno diventa realtà, e diventando tale, smette di essere sogno. Non che si trasformi in una disillusione, affatto. Semplicemente gli USA diventano cioè che sono, e cioè gli USA. Teoria e pratica, illusione e realtà, quelle cose lì.

Ci avevo già pensato e provato ai tempi in cui lavoravo in Microsoft a giocarmi una chance negli States. Feci un paio di colloqui interni per una posizione gaming a Seattle, ma fu inaccessibile agli stranieri solo dopo qualche settimana, per effetto delle prime politiche di Trump. Abbandonai momentaneamente l’idea, senza dannarmi a cercare troppo qualcosa che mi portasse necessariamente via dall’Italia in tempi brevi, ma piuttosto una scelta oculata per crescere nella mia carriera e provare ad entrare nel settore per davvero nel gaming visto che fino ad oggi avevo fallito.

Flash-forward a inizio giugno 2023. Appare una posizione molto interessante nel gruppo Teams aziendale in cui si affrontano tutte le tematiche di gaming. Condivisa con il mio manager (da sempre conscio di quale fosse la mia traiettoria di crescita personale e della quale è stato tra i primi sostenitori) e iniziato il processo di selezione. La posizione è relativa alla comunicazione e ai video games, la mia sintesi preferita. E la sede è quella di Red Bull a Santa Monica, Stato della California.

Verso ovest

Los Angeles e Santa Monica, coincidenza vuole, sono stati i primi luoghi che ho visitato negli Stati Uniti ormai nel lontano 2005. Ai tempi scrivevo per Everyeye.it, non avevo ancora finito l’università e mi apprestavo ad entrare per la prima volta all’ormai defunto E3. Ricordo quel viaggio e l’arrivo in America come un sogno ad occhi aperti. Tutto era enorme, fuori scala, esagerato. Qualcosa che avrei voluto respirare quotidianamente. Successivamente tornai a Santa Monica una seconda volta due anni dopo, nel 2007, in un viaggio itinerante con mio padre dove, fingendomi uno studente in trasferta, acquistai il primissimo iPhone che non sarebbe mai arrivato in Europa. Non so bene per quale ragione proprio quei luoghi, tra tanti altri visitati negli Stati Uniti, mi abbiano sempre attratto così fortemente. Non so spiegarvelo a parole, ma ogni fibra del mio essere ha sempre voluto fare quello che stiamo per fare.

Eppure ho sostenuto un numero ragionevole di colloqui, ho parlato su Teams con diversi colleghi statunitensi grazie ai quali ho compreso come il mercato lì sia abbastanza diverso dal nostro e ai quali ho raccontato quanto di buono stiamo facendo a livello gaming qui in Red Bull Italia. Questo percorso mi ha dato fiducia e convinto del fatto che non sarei stato da meno di nessun altro candidato (bye bye Paura).
Man mano che gli step si susseguivano, ho iniziato a notare ovunque andassi dei chiari segnali. Palesi direi. Tendenzialmente tendo a fidarmi della casualità di queste cose. Cappellini dei Dodgers con LA stampato sopra la visiera ovunque, un cartello appeso in un negozio ad Assisi con scritto “Santa Monica si è trasferito”, un altro su una pensilina del bus con “Ci trovi in Via Los Angeles”, una bandierina della Repubblica della California sventolare nel lido di Pietra Ligure in cui abbiamo affittato due lettini per un weekend, una frazione di Misano da cui sto scrivendo questo post che si chiama proprio Santamonica…e potrei andare avanti a lungo. Inspiegabile o semplicemente ci ho fatto particolare caso rispetto a prima? Probabile sia così, ma mi piace credere ci sia sempre un po’ di magia nelle nostre vite.

Saliamo sul tren…aereo

Sul finire di luglio, in una calda sera d’estate, mentre eravamo a fare un weekend in Umbria ci è arrivata LA notizia. Ero il candidato prescelto. Ci sarebbero stati degli ulteriori passaggi burocratici, ma era sostanzialmente fatta.

Ci siamo abbracciati forte con Noemi. A lei va tutta la mia gratitudine e amore per avermi sempre sostenuto e spinto ad andare avanti, nonostante ora arrivi per lei la prova più difficile di tutte, non solo cambiare tutta la nostra routine ma partire senza nemmeno avere la sicurezza di un posto di lavoro. È uno stress test importante che sono estremamente certo supererà senza problemi. Ce la metteremo tutta per farcela, insieme.

Mamma e papà. Non sarei chi sono oggi senza di loro, senza i sacrifici fatti per questo futuro in cui mi ritrovo. Sono sempre stati i miei primi sostenitori e continuano ad esserlo anche ora, nonostante tutto, nonostante le distanze. So bene non sarà facile, ma troveremo la nostra routine.

Non ultimo Red Bull Italia, i miei colleghi e il luogo di lavoro sono stati e continuano ad essere entrambi pazzeschi. Chi sapeva e chi ha potuto ha sostenuto la mia scelta in ogni modo per far sì che realizzassi questo desiderio. Mi spiace lasciarvi ragazzi, ma per fortuna ci sono ancora tanti progetti da seguire da qui a fine anno grazie ai quali passeremo ancora tanto tempo insieme. Vi aspetto là!

Davvero, non vedo l’ora.Ad oggi non abbiamo ancora uno straccio di documento, se non un contratto firmato e un appuntamento con il console americano fissato per fine novembre. Ma è tutto vero e il mio primo giorno di lavoro dovrebbe essere a inizio gennaio a Santa Monica, Stato della California. Questo dovrebbe lasciarci sufficiente tempo per sistemare tutte le nostre faccende italiane e iniziare ad occuparci di quelle statunitensi una volta là (mi auguro tra fine dicembre e inizio gennaio). Seguiranno doverosi post di aggiornamento.

Forse non c’è niente di speciale nel fare quello che stiamo per fare. In tanti altri prima di noi hanno affrontato lo stesso percorso e stravolto la propria normalità. Non stiamo scappando da nulla, stiamo semplicemente vivendo le nostre vite realizzando per quanto possibile i nostri sogni e forse, a volte, per realizzarli serve uscire dal guscio, prendere dei rischi apprezzando e godendo del percorso fatto e non necessariamente il risultato finale.

Non potevo chiudere il post se non con le parole di Fabio Caressa utilizzate prima della diretta del Red Bull Cliff Diving di inizio luglio di quest’anno. Sono arrivate al momento giusto e mi hanno dato la spinta finale:

Tuffarsi è fiducia
Coraggio
Preparazione
Da oltre 20 metri e nella vita
Il senso di vuoto di una scelta importante
E la necessità di controllare il volo
Per vincere prima o poi devi avere il coraggio di buttarti.
Come se qualcuno ti avesse messo le ali…

Per vincere, prima o poi, devi avere il coraggio di buttarti.

Ce l’abbiamo fatta.