3.976. Sono i km che ci resterebbero per completare il giro della Terra. Sono quelli tra Napier, il punto più a est in cui siamo stati in Nuova Zelanda e Tahaa, il punto più a ovest nell’isola della Polinesia Francese da cui abbiamo fatto ritorno solo all’inizio di settembre. Fa effetto pensarlo, scriverlo ancora di più.

Ho iniziato a scrivere questo post ancora in Nuova Zelanda. Da qui più precisamente. Una casupola sperduta in mezzo alle verdi colline di Otorohanga. In effetti, nell’isola del Nord, ovvero quella che abbiamo percorso on the road questa settimana, sembra di essere più dentro lo sfondo di Windows XP che in una Nazione.

Nazione che sin dal primo istante ci ha tolto il fiato. Ancora prima di atterrare devo dire. In fase di rullaggio sulla pista di Sydney, un atroce dubbio si è insinuato nelle nostre menti: e se servisse la patente internazionale per guidare lì?

Per fortuna dopo quasi tre ore (giuro) di controlli su controlli, la polizia della biodiversità ci ha lasciati andare e abbiamo recuperato la nostra macchina a noleggio senza che nemmeno me la chiedessero la patente!

Non avevo mai guidato a sinistra prima d’ora e nemmeno ritirato un’ auto senza il controllo patente, forse han compreso il mio doppio disagio e ci han lasciato andare. Non è stato poi così complicato abituarmi, faccio solo ancora un po’ di fatica nelle rotatorie e inserire la freccia direzionale con la mano destra scambiandola per il tergicristalli.

La nostra Suzuki Swift del 2008, con su oltre 200.000 km percorsi e un po’ di ruggine qua e là, ci ha condotti per oltre 1000 km su questo percorso dove abbiamo coperto si e no 1/3 dell’isola del nord:

Auckland e Hobbiton

Auckland non ci ha entusiasmato, ma devo dire ci siamo rimasti davvero pochissime ore. Le cose interessanti in questo Paese non sembrano essere le città, piuttosto tutto quello che sta al loro confine. Tipo, all’interno del sobborgo Mount Eden c’è il cratere del vulcano Maungawhau e altri 14 coni vulcanici chiamati Tūpuna Maunga, un sito ancestrale carico di significato per la cultura Maori.

Ma da fan de Il Signore degli Anelli, soprattutto il libro, non potevo che avere come obiettivo quello di andare a Hobbiton. Hobbiton altro non è che il set utilizzato da Peter Jackson per realizzare La Contea nella trasposizione cinematografica del romanzo di Tolkien. Sebbene sia stato parzialmente smantellato dopo Il Ritorno del Re e la scena conclusiva con Sam e Rosie, La Contea ha ripreso vita per Lo Hobbit e da quel momento è stato deciso di mantenerla perennemente visitabile ai fan e curiosi. Un prodigio artificiale incastonato tra le verdi colline della fattoria Alexander. Tutto è manutenuto quotidianamente da una squadra di addetti dedicati soprattutto alla vegetazione (c’è anche un orto ad esempio) e a preservare il tutto al meglio. Non ci sono case visitabili purtroppo, anche se speravo tanto fosse vera almeno quella di Bilbo Baggins, ma tutte le scene interne sono state girate in uno studio di produzione a Wellington. All’interno della locanda Il Drago Verde però, vengono prodotte due birre in esclusiva e un sidro di mele gustabili solo lì e da nessun’altra parte. Se sei fan dei film, ti lascio alle immagini, non penso servano didascalie.

Rotorua, Taupo e Napier

Da lì ci siamo spostati verso Rotorua. Il primo dei due laghi che abbiamo incontrato sul nostro percorso. A Rotorua ci siamo dedicati a due attività principali. La prima la sera stessa. La foresta di sequoie Redwoods Whakarewarewa e più precisamente una camminata notturna fino a 20 metri d’altezza in sospensione: la Redwoods Treewalk. Qui abbiamo camminato per circa 700 metri sospesi attraverso un intricato sistema di 28 ponti agganciati a tronchi di alberi vecchi 120 anni. 40 minuti immersi nel silenzio e luci dove abbiamo scoperto come nessun chiodo è stato piantato per permetterci di galleggiare in quel percorso, e come la Nuova Zelanda fosse coperta per oltre il 90% di foreste prima dell’arrivo dell’uomo attorno al 1250 dalla Polinesia e successivamente dall’Europa.

La zona di Rotorua è famosa anche per la sua attività geotermale, al mattino successivo ci siamo così recati al piccolo parco Orakei Korako, solo perché il più famoso Wai-o-Tapu avrebbe aperto i battenti soltanto il 22 ottobre. Poco male, è stato sufficiente per ammirare uno spettacolo unico al mondo e scoprire poi che la Nuova Zelanda dipende per il 17% del suo fabbisogno elettrico dall’energia geotermale. Non male se si paragona all’Islanda con il suo 26%.

Nel pomeriggio ci siamo spostati verso Taupo dove abbiamo fatto una breve passeggiata fino alle cascate Huka. 220.000 litri d’acqua al secondo per 11 metri di cascata. Piccole, ma incazzate eh.

Infine abbiamo fatto tappa a Napier, il punto più ad est di questo nostro viaggio. Napier è situata nella Hawke’s Bay, la seconda regione per produzione di vino in Nuova Zelanda. Prima di arrivarci ho aperto Vivino per controllare, notando di aver assaggiato soltanto 5 vini neozelandesi prima d’ora e tutti provenienti dalla zona di Marlborough, la prima per produzione e particolarmente famosa per il suo Sauvignon Blanc. Napier e le 4 cantine visitate non hanno poi troppo da invidiare ai cugini del sud. Qui si stanno specializzando soprattutto sul rosé, Pinot Gris per i bianchi e Cabernet Sauvignon per i rossi. Tutte e 4 conoscono molto poco i vitigni italiani e si rifanno quasi totalmente a quelli francesi e al loro modo di conservare il vino. Nonostante il panorama possa suggerirlo, nessun filare di viti è coltivato su collina, ma tutte su terreno pianeggiante. Il motivo? Semplicemente questione di terreno. Spesso e volentieri gli appezzamenti scelti sono posizionati su letti di vecchi di fiumi.

L’ultima delle cantine visitate si chiama Te Mata. La foto in alto a destra è la vista di cui godono da lì e la collina prende il nome da una leggenda molto suggestiva di un gigante dormiente.

Otorohanga e Waitomo Caves

Il nostro ultimo giorno, dopo averne passato metà di quello precedente in viaggio, ci ha condotto a Otorohanga. Qui abbiamo soggiornato in una dependance di una villa sperduta con verdi praterie e colline a perdita d’occhio solo per dedicarci a visitare le grotte Waitomo e Ruakuri. Uno spettacolo di stalattiti e stalagmiti di 30 milioni di anni. Rese ancora più uniche dai glowworms, larve che illuminano il loro apparato digerente per attirare ancora più cibo. Restano in questo stato di “stella” appese alle pareti delle caverne per circa nove mesi, per poi trasformarsi in crisalide e morire dopo 3 giorni di vita. La testimonianza che fossero delle caverne sommerse nell’oceano la si poteva distinguere ad occhio nudo grazie ai tanti fossili ancora intatti e ben visibili. Impressionate.

Amenità in una settimana

Sebbene abbiamo avuto pochissimo tempo a nostra disposizione, ho cercato di annotarmi tutte le stranezze o quanto di più insolito potesse catturare la mia attenzione. Partiamo dalla quotidianità.

I negozi chiudono molto presto. Tra le 16 e le 17.30 al massimo. Nel weekend ancora prima, mai più tardi delle 16. Ok ci sono eventualmente supermercati aperti fino alle 22 e talvolta le 24, ma sono una rara eccezione. Non so se questa è una decisione comunitaria a beneficio del singolo, del resto ho visto che mediamente qui hanno contratti da 37.5 ore a settimana, ma trovo sia propedeutico al loro stile di vita. Estremamente pacato, tranquillo e gioioso. Sì, come gli Hobbit. Si cena tra le 18 e le 19 massimo. Io non so se la ricetta per la felicità passa da qui, ma mi piace pensare così, da spettatore turista della vita dei piccoli paesi da noi toccati.

Tanti ragazzi portano il mullet, la musica che passa alle radio è quella di inizio anni 2000 forse massimo 2010. Una sorta di revival perenne che male non fa. Ci è capitato di incontrare temperature molto variabili nella stessa giornata, passando da 9 gradi ai 19 durante il viaggio verso Napier. Nessuna di queste è sembrata sufficientemente fredda da fermare qualcuno dal girare in maniche corte o pantaloncini, ma ancora più assurdo è stato vedere molte persone, sia adulti che piccini, girare a piedi nudi in centro città. Liberatorio.

Tranne ad Auckland, ho notato davvero pochissimi palazzi. Praticamente in tutto il tragitto abbiamo incontrato soltanto villette unifamiliari di svariate dimensioni, per lo più prefabbricati trasportati lì fatti e finiti. Di conseguenza mi aspettavo anche un massiccio utilizzo del fotovoltaico visto i molti giorni di sole nell’isola del nord, di contro ne ho visti pochissimi. Negli Airbnb frequentati abbiamo trovato solo stufette elettriche e impianti di condizionamento inverter. Probabilmente qui non risentono ancora di nessuna crisi energetica.

Il costo della vita mi è sembrato piuttosto abbordabile rispetto al nostro potere d’acquisto (uno stipendio medio annuo in Nuova Zelanda varia tra i 37.000 e i 38.000 euro). La benzina si aggira attorno ai 1.3/1.4 euro al litro, mentre abbiamo sempre pranzato e cenato in due con più o meno 50 euro totali. A proposito di cibo, non abbiamo incontrato un piatto tipico neozelandese su larga scala rispetto all’itinerario che abbiamo seguito, piuttosto abbiamo trovato ovunque queste tortine al cui interno ci sono i pasticci di carne più disparati.

E infine il silenzio. C’è un silenzio naturale come forse poteva esistere da noi centinaia di anni fa. Ti riconcilia con la natura, ti calma e accentua moltissimo tutti i sensi.

Māori

Dimenticavo un punto del nostro viaggio a cui tengo molto. La cultura Māori. Non siamo riusciti ad approfondirla molto e me ne dispiaccio. Avremmo voluto assistere a un’esibizione dedicata a questo, ma i biglietti erano terminati. Abbiamo cercato di rimediare per quanto possibile notando un manifesto per le vie di Napier. Si tratta della mostra fotografica itinerante Wāhine, donna in lingua Māori. Fortunatamente una delle tappe era ad Hastings, a pochi minuti da lì. Siamo rimasti abbastanza colpiti. La mostra fotografica in realtà è accompagnata da un’ audio guida composta da podcast, ognuno dei quali racconta sotto forma di intervista la vita delle donne raffigurate in foto. Abbiamo imparato di come tante di loro abbiano abbracciato la cultura Māori solo da adulte e come non sia stato affatto un processo semplice. Abbiamo imparato come alcune venissero affidate fino a non troppi decenni fa ai Pākehā, i neozelandesi nati da origini europee, se la loro famiglia non sarebbe stata in grado di badare a loro. Non è in un inglese di facile comprensione, ma le storie di queste donne, disponibili anche su Spotify, mi hanno appassionato a tal punto da voler scoprire tutto su questa cultura che nella sua forma ancestrale ci ha sfiorato solo in parte in Polinesia e ora qui in Nuova Zelanda con tutta la sua carica spirituale.

Spero di tornare presto…

È pericoloso, Frodo, uscire dalla porta. Ti metti in strada, e se non dirigi bene i piedi, non si sa dove puoi finire spazzato via.

Bilbo pronuncia queste frasi prima di lasciare per sempre La Contea. Questo cortissimo viaggio dall’altro capo del mondo mi ha segnato particolarmente. Forse per aver incontrato più pecore, mucche o cavalli rispetto a qualsiasi altra forma umana nel giro di ore di strada, forse perché avremmo fatto in totale 10 minuti di traffico in 6 giorni di automobile, forse perché essere spazzato via verso queste latitudini ci ha fatto ancora una volta riflettere su quanto di meraviglioso ci sia nel mondo e come un altro tipo di vita sia possibile. Può essere pericoloso, certo, ma vale la pena rischiare.

Conoscere, uscendo dalla porta, è tutto quello che ci resta per sentirci vivi e meno soli.

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