In questa caldissima mattina di inizio luglio mi sono recato all'ufficio postale del paese. Obiettivo inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno per contestare una multa ricevuta per eccesso di velocità.

Al di là di aver scoperto solo al rientro che avrei potuto fare il tutto comodamente seduto da casa, dopo aver varcato la soglia e settatomi in modalità osservatore antropologico mi sono accorto di come ancora le persone (tante e per forza a questo punto devo includere anche me) vadano in posta per le ragioni più disparate, soprattutto per richiedere tutta una serie di servizi gestibili in totale autonomia e per i quali non vi è nessuna necessità di recarsi presso un ufficio sovraffollato di pochi metri quadri a queste temperature.

C'è chi pagava la TARI, chi prelevava allo sportello anziché al bancomat esterno, chi ancora pagava le bollette delle utenze domestiche. E no, non c'erano anziani a eseguire queste operazioni, ma persone che a una rapida occhiata avranno avuto forse a dir tanto 10 anni più di me. Piuttosto preoccupante e sintomatico di una ancora scarsa educazione digitale su cui c'è ancora da far tanto, sia da un punto di vista di apprendimento che di usabilità dei servizi online costruiti per assolvere questo tipo di compiti.

Ma ecco, mentre stavo lì in totale estasi sociale, mi sono accorto di iniziare a percepire un discreto freddo corporeo. Nonostante gli oltre 35 gradi esterni nell'ufficio postale si sarebbero potuti stoccare dei bovini per il macello. E per forza, non so quale dei due termostati regolasse lo split sopra le nostre teste, ma tra 20 e 21 gradi non si scappava.

Ma l'ufficio postale non è un comune ufficio pubblico dove si dovrebbe rispettare questa normativa del maggio 2022 dove si impone il tetto dei 25 gradi?

Questa è l'Italia.