L’ultima volta del Trono
Uno streaming per domarli tutti
Dettare
Ho recentemente acquistato il mio primo paio di AirPods. Pensavo di sentirmi uno stupido con quegli aggeggi dal design bizzarro e probabilmente disegnati tramite un’accetta, e invece sto iniziando ad usarli sempre di più:
- Telefonando. Io cammino costantemente durante le telefonate. Ovunque sia, per parlare al telefono, io cammino. Le AirPods sono un aiuto non da poco, posso alzarmi dalla sedia e passeggiare dimenticandomi il telefono sulla scrivania
- iPad Pro. Con il nuovo iPad che ha solo un’uscita USB-C o compri una cuffia apposta, o ti affidi a quelle bluetooth. Anche qui cascano a fagiolo. Metti che in una serata ci dividiamo gli schermi, io mi infilo le AirPods e mi guardo la qualsiasi da iPad
Ma arriviamo a uno spunto ulteriore al quale non avevo pensato. In effetti faccio uno sporadico utilizzo dei comandi vocali e di Siri in genere, forse solo abitudine, ma ancora non riesco bene ad automatizzare i processi. Leggevo questa column sul NY Times. Invece di scrivere fisicamente gli articoli, questo giornalista sfrutta soltanto la voce e due app dedicate in grado di registrare e sbobinare:
Here’s what I do: Instead of writing, I speak. When a notable thought strikes me — I could be pacing around my home office, washing dishes, driving or, most often recently, taking long, aimless strolls on desolate suburban Silicon Valley sidewalks — I open, a cloud-connected voice-recording app on my phone. Because I’m pretty much always wearing wireless headphones with a mic — yes, I’m one of those AirPod people — the app records my voice in high fidelity as I walk, while my phone is snug in my pocket or otherwise out of sight.
And so, on foot, wandering about town, I write. I began making voice memos to remember column ideas and short turns of phrases. But as I became comfortable with the practice, I started to compose full sentences, paragraphs and even whole outlines of my columns just by speaking.
Then comes the magical part. Every few days, I load the recordings into, an app that bills itself as a “word processor for audio.” Some of my voice memos are more than an hour long, but Descript quickly (and cheaply) transcribes the text, truncates the silences and renders my speech editable and searchable. Through software, my meandering memos are turned into a skeleton of writing.
The text Descript spits out is not by any means ready for publication, but it functions like a pencil sketch: a rough first draft that I then hammer into life the old-fashioned way, on a screen, with a keyboard, lots of tears and not a little blood.
Non credo arriverò a questo grado di complessità, anche perché non faccio il giornalista di professione, ma spesso mi capita che le idee migliori per i miei post mi vengano in auto mentre sto guidando, o prima di addormentarmi dove mi sta calando la palpebra e non ho più le forze di scrivere.Forse iniziare ad usare la voce mi aiuterebbe a non dimenticarmi dell’80% dei contenuti che invece avrei scritto qui.E voi come sfruttate la voice recognition?
Sono i social network a dover cambiare o le persone?
Gli ultimi giorni sono stati particolarmente interessanti. Con quanto successo sulla pagina facebook INPS e con l’intervento del CEO di Twitter a una conference TED, ho voluto mettere insieme un po’ di argomenti.
Sono i social network a dover cambiare?
Montemagno pensa siano le piattaforme a doversi dotare di misure drastiche, essere ripensate dalle fondamenta per non consentire la divulgazione di qualsiasi opinione trattata alla stregua di un premio Nobel. Jack Dorsey dal canto suo ci ha messo la faccia, contrariamente a quanto fa Zuckerberg, senza promettere una soluzione, ma riflettendo sui problemi endemici della sua piattaforma e comprendendo quanto di possibile si possa fare per riportare Twitter ad un livello di vivibilità e civiltà accettabili.
Oppure dovrebbero essere le persone a dover cambiare il modo di approcciarsi al resto del mondo una volta dotati di tastiera?
La mia risposta sta nel mezzo. Un po’ come si punivano gli hooligans in Gran Bretagna qualche decennio fa, le piattaforme dovrebbero cercare di debellare gli utenti in grado di generare solo insulti e odio. Il problema vero è che quest’ultime non funzionano come uno stadio. Morto un account, ne nasce un altro.Partire dall’educazione? Facile a dirsi, ma nella pratica ho assistito a esternazioni allucinanti da persone culturalmente elevate, ma probabilmente l’impunità va a risvegliare gli istinti più gretti dell’uomo.Nell’originaria e originale idea alle fondamenta dei social network, perlomeno quelli più frequentati al momento, ci sarebbe dovuta essere la pacifica circolazione delle idee, azzerare le distanze, facilitare la creazione di comunità. È ormai palese che una ben bassa percentuale di questi sfarzosi concetti è oggi riscontrabile in una qualsiasi conversazione su una di queste piattaforme. La costruzione dell’ego, l’importanza dei numeri rispetto ai contenuti, l’apparenza sopra l’essenza sono i veri protagonisti invece.Dovremmo forse semplicemente accettare un concetto molto semplice. Le persone sono molto brave ad esser stronze e fare schifo quando gliene dai la possibilità. E più restano impuniti, più possono agire protette dall’anonimato, più il concetto di 1 vale 1 diventa diffuso, maggiori sono le possibilità di terminare nella deriva dell’insulto e dell’intolleranza.Sospetto ci sarà un gran lavoro da fare in tutti i sensi. Sia dal punto di vista di accesso e interazione in questi luoghi così familiari eppure così estranei, così come da quello della comprensione intrinseca degli stessi. La rilevanza di cui li carichiamo è commisurata a una qualità di vita migliore o semplicemente a diventare animali sociali di tutto rispetto?Mi sono dato una risposta molto tempo fa. Allontanandomi dalla partecipazione attiva perché l’80% delle volte si tratta di assenza di valore e di contenuti immeritevoli della mia attenzione. I miei profili resteranno attivi per ragioni di studio, approfondimento e lavoro. Ma sono conscio del fatto che ciò sta al di fuori di questo dominio internet, difficilmente sia in grado di dire chi io sia e altrettanto non è in grado di darmi una giusta percezione del mondo e di chi lo abita.Lo spazio per l’approfondimento è, ad oggi, e fortunatamente, altrove.
Fatalità
+ People. La parte più divertente del mio lavoro, e negli anni ho imparato a considerarla tale, è assistere ad incontri con persone all’apparenza molto carismatiche, si sono costruite negli anni uno standing e un’aura più che invidiabile, si circondano di VIP, ti guardano dall’alto al basso come se fossero investite di un potere divino, delegano a fidi galoppini qualsiasi attività esecutiva. Ma soprattutto hanno i minuti contati, durante i quali hanno il compito di lanciare una bomba, un’idea rivoluzionaria nella stanza in cui si trovano per poi far finta di avere un’agenda piena di appuntamenti con le più alte cariche delle prime 10 aziende del mondo, e quindi scusami tanto ma mi hai già fatto perdere troppo tempo io me ne devo andare.Ho imparato a divertirmi in queste situazioni. Forse da giovane avevo soggezione di persone del genere, perché chissà mai quale esperienza avessero per comportarsi in questo modo. Poi col tempo mi sono reso conto che poi le loro idee tanto rivoluzionarie non sono, che son state solo molto brave a far credere a chi gli giro attorno di essere su un gradino più alto del processo evolutivo.Una maschera da indossare per sentirsi amate, meglio con loro stesse, trovare il proprio senso della vita. Fake. Anzi, Counterfeit. Non sapete quanto sono felice di non essere una persona del genere, ma esattamente l’opposto
+ Krill. Io non mangio pesce. Di nessun tipo. Nemmeno i crostacei o quello crudo. Faccio solo eccezione per il tonno in scatola e i bastoncini di pesce fritti. Che mi dicono non sapere di pesce, in effetti. Questo mi obbliga a fare una terapia integrativa di Omega 3 o comunque di tutte quelle sostanze che non ingerisco evitando il pescato. Tipicamente sono pastiglie di Krill. Il che mi fa sentire innanzi tutto una balena. L’effetto collaterale è l’incapacità di digerirle da parte del mio organismo, indi per cui avere sempre in bocca per almeno un paio d’ore un fastidiosissimo sapore di pesce. Forse me lo merito.
+ Vetro. Qualche giorno fa è piovuto un sasso dal nulla sul mio parabrezza. Non avevo nessun veicolo davanti quindi non riesco ancora a capacitarmi circa la sua provenienza. Il vetro si sta crepando di qualche millimetro al giorno sempre di più.Credetemi le pratiche per farselo sostituire hanno tempi biblici. Speriamo a breve di arrivare al dunque.
+ Brava Fabrics. Quasi per caso mi sono imbattuto in questo brand spagnolo. Stavo cercando delle camicie meno bragalone e più vicine al mio stile. Collo stretto, in alcuni casi all’italiana con bottone, ma in linea generale non troppo lunghe sul corpo. Da portare anche fuori dai pantaloni. Diciamo che ho praticamente rifatto la collezione nel guardaroba. Brava Fabrics è molto di più, infatti ho acquistato anche due maglioni e qualche altro capo. La storia del brand è molto interessante e l’etica che perseguono altrettanto.
After Life
Questo fine settimana ci siamo incollati alla TV per After Life.Una mini-serie scritta e prodotta da Ricky Gervais. Non ho mai seguito troppo Gervais, come attore non mi ha mai detto molto. Eppure in questa interpretazione al metà tra il cinico-pessimista e la riscoperta del sé e della bellezza della vita, l’ho apprezzato particolarmente.Dopo la morte della moglie la vita di Tony non ha più un senso. Senza la possibilità di condividere la felicità l’esistenza ha poco senso. Pensa costantemente al suicidio come piano B. Il piano A invece è essere completamente sinceri con il resto del mondo, dicendo e facendo qualsiasi cosa passi per la testa.Libero.Ed è proprio questa libertà a portarlo ad affrontare la sua paura più grande. Essere felice di nuovo con una persona differente dalla moglie appena deceduta.L’espressione di una personalità buona e gentile, incattivita dalla vita e dal dolore, reagisce nel modo migliore possibile grazie alle persone che lo circondano.Tra tanta TV spazzatura, After Life merita di essere visto.[embed]https://youtu.be/M\_YNU\_mhJvk\[/embed]
Hamburger Milano — theLab
Dopo avermi incuriosito nella puntata dedicata agli hamburger milanesi, oggi a pranzo abbiamo provato theLab.Ordinato il MI: Hamburger di vitello (carne piemontese), risotto allo zafferanno con pistilli a vista, taleggio DOP, maionese al lime.
Rispetto alla puntata la carne non mi pare avesse fiocchi di sale. E in effetti è stato l’ingrediente soffocato dagli altri tre. Ad ogni morso prevaleva un sapore differente, la maionese, il sapore forte dello zafferano o quello deciso del taleggio, ma mai la carne.Nonostante ciò, mangiata da sola si sentisse essere di qualità eccellente. Peccato.Altra nota stonata le patatine. Fresche, ma troppo saporite da un tocco non richiesto di paprika. Con un sapore così deciso, poi, la salsa senape al curry accendeva troppo il piatto. Sarei rimasto su della semplice maionese.
Il prezzo è aumentato leggermente rispetto a quanto visto in TV, 16€ giustificati comunque. Ti mangi praticamente primo e secondo in un sol boccone.Nell’insieme ottimi ingredienti, di qualità, ma combinati insieme non mi hanno fatto dire WOW, ci tornerei. Poco soddisfatto invece del tiramisù, con i biscotti Digestive decisamente troppo amari e l’assenza totale di caffè nonostante fosse presente come ingrediente nel menu.Mi aspettavo di più sinceramente, vista anche la votazione su Tripadvisor.Prossimo nella lista da provare: Myke.theLabVia Pasquale Sottocorno, 5/A20129 — Milano★★☆☆
Dio salvi la musica in streaming
Qualcuno anni fa tirò fuori questo concetto della coda lunga.Internet ha ampliato le limitate prospettive grazie a un coefficiente tendente all’infinito: la scelta.Questa cosa l’ho riscontrata soprattutto nei servizi di musica in streaming. Credo di aver scoperto e ascoltato più musica negli ultimi 6 anni che in tutta la mia vita.50 milioni di brani sono davvero un’infinità. Nella mia collezione personale al momento ne ho 36.000 circa, il counter mi dice che impiegherei 100 giorni ininterrotti per ascoltare tutte le canzoni salvate. Figuriamoci tutto il repertorio a cui si ha accesso a 9.99€ al mese.Al di là dei puristi, del salviamo il vinile, i cd e le musicassette, la verità è che mai come ora possiamo estendere i nostri orizzonti musicali. E non perché un bot ci ha suggerito la prossima playlist di tendenza, ma perché in base ai nostri gusti musicali ci fa scoprire praticamente ogni giorno una nuova proposta.Prima di questa rivoluzione quando? Nei forum? Nei negozi di musica? Passaparola?C’è chi dice che la sovrabbondanza faccia male al mercato, non generi abbastanza revenue agli artisti, e canzoni capolavoro magari non verranno mai ascoltate.Io penso proprio l’opposto e il modo in cui le canzoni scalano le classifiche oggi ne è la dimostrazione. Ormai gli artisti sopravvivono con i singoli e non con gli album, gente sconosciuta raggiunge le vette per poi sparire di nuovo nel nulla.Viva Iddio per questo nuovo modo di ascoltare musica. Per chi la ama è davvero una manna.
Dispacci islandesi: passo e chiudo
Oggi sveglia senza orari. Ci aspettava un massaggio rilassante alle 12 da Day Spa.
E così è stato. Talmente rilassati da doverci riempire lo stomaco al Grill più fico in città!
Il menu è ridotto all’osso, l’odore dentro il locale è di quelli che ti rimangono per mesi appiccicati ai vestiti, ma il cibo è favoloso e credo non servano ulteriori commenti.
Ci siamo sgranchiti le gambe e ci siamo spostati verso il lungo mare, siamo arrivati al Sun Voyager proprio mentre almeno tre bus pieni di orde di turisti si stavano fermando. Appena in tempo per qualche scatto. L’opera elogia ed esalta la voglia di esplorare nuovi territori.
Abbiamo chiuso la giornata con una tappa obbligata da Bæjarins Beztu, letteralmente “Il miglior hot-dog della città”. Aperto dal 1937 e sparso in varie zone della città, il baracchino propone soltanto hot-dog ma con:
A hot dog condiments include ketchup, sweet mustard, fried onion, raw onion and remolaði, a mayonnaise-based sauce with sweet relish. Hot dogs are often ordered with “the works,” i.e., all condiments, or in Icelandic “eina með öllu
Il posto è sì turistico, ma molto popolare anche tra gli islandesi, e infatti alle 18.30, orario in cui sembra essere l’ora di cena quassù, la coda era piuttosto consistente. Ma alla fine eccolo qui. Ricordando quelli assaggiati a New York mi è sembrato assai più delizioso e consistente. Da provare se passate da queste parti. E se lo dicono anche gli americani…c’è da crederci.
Quando il post sarà pubblicato noi saremo in aereo, ma a conclusione di questa settimana abbiamo tirato le somme di una inaspettata esperienza:
- Non si è mai abbastanza pronti per il freddo di qua. Un freddo diverso da qualsiasi altro mai provato prima. Un freddo puro, da spezzarti il cervello, da farti rallentare il cuore. Uno scenario da Game Of Thrones, stile Hardhome. Per combatterlo tonnellate di maglie termiche, cappello, scarponi imbottiti con calze di lana, pile e assolutamente una giacca impermeabile
- Reykjavík, ma così come tutte le altre mete visitate, ha un non so che di malinconico. Sarà per le 6 ore scarse di luce, o per un silenzio a metà tra il rilassante e il carico di tensione che pervade la città, l’Islanda è pacata. Adagiata sul bianco, sul ghiaccio, sul freddo pungente. Un silenzio assordante
- In realtà la capitale è molto viva. Ci sono cantieri ovunque, si sta espandendo e anche di sera non ci è mai sembrata un mortorio. È forse il ritmo della vita ad essere molto più calmo. I negozi chiudono tra le 17 e le 18, la stragrande maggioranza dei ristoranti entro le 23 e gli uffici tra le 16 e le 17. I negozi sono chiusi la domenica, mentre i supermercati sono aperti 24/7
- Tutti sono gentili e cordiali. Tutti, ma proprio tutti, parlano inglese molto bene e si fanno capire perfettamente
- Non siamo riusciti a capire come mai ovunque mettessimo piede ci fossero ancora addobbi di Natale. Sarà forse per sopperire alla mancanza di sole, ma dappertutto, anche nel luogo più remoto visitato abbiamo trovato lucine, stelle di natale e luminarie di svariata forma e natura
- Negli altri post ho dimenticato di menzionare che quell’80% di energia geotermica è in mano straniera e non islandese. Una mossa voluta per attrarre investimenti dall’estero
- La ristorazione proposta è generalmente vicina allo stile statunitense e della Gran Bretagna. Ok, si trovano molte cose tipiche, pesce e agnello soprattutto, ma è molto più facile trovare hamburger e patatine fritte che piatti tipici. È mediamente molto caro mangiare, di solito non ce la si cava con meno di 20 euro a testa. E se si vuole mangiare decentemente si arriva anche ai 40 molto facilmente. Anche in questo caso non sappiamo se dovuto a PIL pro capite adeguato. Stando a Wikipedia 12.000$ più dell’Italia
- C’è connessione ovunque. Il Wi-Fi aperto in ogni locale in cui siamo stati, persino sui bus delle escursioni. Per il resto 4G anche nei posti più sperduti
L’Islanda è un luogo meraviglioso che consiglio caldamente di visitare una volta nella vita. Dove da una parte il tempo sembra essersi fermato a migliaia di anni fa e dall’altra la natura ha ceduto il passo all’innovazione. Un luogo dove tradizione e modernità si fondono per diventare melting pot tra gli Stati Uniti e l’Europa.
Un luogo con una profonda voglia di emergere e apparire indipendente agli occhi del mondo, ma che ne ha disperato bisogno per alimentarsi e continuare la sue esponenziale crescita.
Mi porto a casa una profonda invidia per lo stile di vita, il funzionamento dell’apparato pubblico, un po’ meno per il clima e il cibo, ma del resto da noi non è l’esatto opposto?