Dai Sardegna ingrana la quarta

Beato Te Milano 🍕

L’amore per la pizza porta in lidi lontani. Talvolta trovi quella perfetta in luoghi sconosciuti, altre volte tramite il consiglio di un amico. Beato Te Milano arriva alle mie orecchie tramite un collega che me ne decanta la digeribilità e la possibilità di scegliere tra tanti impasti differenti.Dopo un anno, su per giù, finalmente domenica scorsa ho provveduto a soddisfare la mia sete di conoscenza.Non me ne vogliano gli abitanti di Lorenteggio, ma diciamo per chi come me arriva dalla provincia est di Milano non è proprio alla mano, ma complice la settimana entrante di ferragosto in 35 minuti di tangenziale semi deserta ci siamo arrivati agevolmente.Il locale è davvero spazioso disposto su più livelli. All’entrata una schiera di camerieri che nemmeno all’Apple Store, tutti gentili e pronti a salutarti e accoglierti.Rispetto a tante pizzerie non c’è una lista infinita di pizze. Il menu viene suddiviso in due, pizze normali e pizze gourmet. Io ho puntato sulla seconda categoria ordinando Il Bel Paese con impasto di Kamut.Già…gli impasti. Ce ne sono 10 tra cui scegliere e varrebbe la pena tornarci solo per provarli tutti. Per me la prova del 9 per giudicare un impasto di una pizza consumata per cena è la notte. Se si passa la nottata rigirandosi per il gonfiore e per quella sensazione di dover partorire la pizza da un momento all’altro, allora non è un posto da frequentare più.Devo ammettere invece che, nonostante il bendidìo schiaffato ad ornamento della mia pizza, l’impasto è risultato croccante e morbido allo stesso tempo, un equilibrio necessario per poter affrontare le guarnizioni senza sovrastarle.Consiglio di prenotare, soprattutto nei weekend, perché sempre molto sold-out. Ci ritornerò senz’altro per provare altri sapori e altri impasti, intrigante quello al carbone e quello al mais. Non è la pizza migliore che abbia mai mangiato, ma sicuramente è un sì pieno e deciso.Beato Te MilanoVia Sant’Anatalone, 16, 20147 Milano MI★★★☆

La contaminazione fa sempre bene

Il post di Gianluca di questa settimana verteva su tre modi per rimanere competitivi in un mercato aggressivo e un po’ troppo copione.A me piace soprattutto la seconda modalità, riportata per comodità qui sotto:

La seconda consiste nell’importare qualcosa di già esistente, ma da un altro settore. Uno dei miei crucci esistenziali è che in tanti settori gli head hunter cacciano sempre nello stesso recinto, catturando prede che hanno visto solo un ambiente e un tipo di cibo, che ha imparato i comportamenti dai sui consimili fin dalla tenera età lavorativa. Questo è un handicap fatale. E invece i modelli di business, di filiera, di pricing, di advertising dovrebbero essere ibridati.

I settori, come i secoli, sono creazioni umane artificiali, che non hanno corrispondenza diretta nella mente del consumatore. I mezzi di contatto hanno visto crollare i prezzi per arrivare al consumatore. I mezzi di consegna stanno seguendo la stessa strada. Ibridazione è la via. La consanguineità porta all’estinzione, anche nel marketing. “Come sarebbe il vostro zampirone se lo facesse Apple?” (Se non sapete cos’è uno zampirone non siete padani, beati voi)

Questo tipo di contaminazione la vivo quotidianamente al lavoro, il mio team è formato prettamente da figure provenienti da settori differenti dal quale oggi ci troviamo ad operare. Oltre al bagaglio di soft skill di ognuno di noi, il percorso professionale e la iper specializzazione delle nostre competenze fa sì che potremmo saltare da un settore ad un altro senza dover per forza soffrire di misplacement o sentire di operare out-of-contest.La contaminazione in linea generale fa sempre bene, rinnova settori spesso vetusti e morti d’abitudini consolidate e del così fan tutti. La cosa davvero importante è che chi contamina deve saperlo fare talvolta senza dover badare troppo al competitor diretto e alla folla rincorsa del — ah ma se l’hanno fatto gli altri, dobbiamo farlo anche noi — ma cercare di differenziarsi per poter stabilire nuovi standard a cui nessuno aveva pensato prima.Senza dover disturbare per forza Jobs, è però tremendamente vero che le persone non sanno cosa vogliono finché non glielo si piazza davanti agli occhi. E sono fermamente convinto che se prodotti o servizi innovativi hanno dalla loro la cura e la passione, doverose per poter sopravvivere, partono con un vantaggio competitivo non indifferente: l’effetto sorpresa.

Cambiare tecnologia

In questi giorni ho davvero tanto tempo da riempire con tutta la multimedialità possibile che vi venga in mente.Sono finito in un vortice di thread su twitter sulla pericolosità degli strumenti che siamo abituati ad utilizzare online ormai da una decina d’anni e più.Non vanno più bene, non sono più sicuri, la nostra vita è in pericolo. Gmail da sostituire, Dropbox men che meno, il tuo CMS non ti indicizza più e quindi va sostituito, per non parlare dei dati personali e quindi devi spostare tutto immediatamente e affidarli ad una start-up estone. E così per tanti altri servizi.C’è però che l’abitudine è una brutta bestia e la comodità da essa derivata ancora di più. C’è che sono incensurato, pago le tasse e non ho segreti di stato da nascondere a nessuno e di certo quanto mi è più caro e importante non lo salvo su nessuno di questi servizi e ove necessario prendo tutte le dovute precauzioni del caso (cambio password spesso, 2-step verification etc.). Pertanto continuerò ad utilizzare quelli che meglio rispondono alle mie esigenze prendendo le dovute precauzioni, ma evitando di farmi spaventare più del dovuto.Sinceramente rinunciare a tutto ciò per paura di essere targettizato, spiato o quant’altro ha gran parte di verità, ma è altrettanto vero che l’allarmismo è spesso e volentieri esponenzialmente amplificato senza una tangibile ragione.Il furto di identità e dei dati online è spesso e volentieri colpa dell’utente stesso e questo il più delle volte è dovuto dalla scarsa educazione digitale. Non può purtroppo essere una giustificazione e piuttosto di dover andare a cercare con il lanternino soluzioni alternative riguardanti la privacy e tutte queste menate, basterebbe porre la dovuta attenzione ai tanti settings a disposizione di account che già utilizziamo quotidianamente.Io ci ho anche provato a spostare questo blog altrove, a cambiare provider di email, a passare da Safari ad altri browser, ma non ho più voglia di dover re-imparare tutto daccapo. Piuttosto “spreco” il mio tempo nell’aggiustare i miei profili attuali, cercando di limitare i danni.

Spazi pubblici vs privati

I dettagli scontati

L’organizzazione di un evento, qualsiasi esso sia, è come diventare direttore d’orchestra.Non solo devi avere la capacità di far suonare all’unisono tutti gli elementi coinvolti, ma devi avere “l’orecchio” per interpretare immediatamente se qualcuno stecca, se qualcuno va troppo veloce o rallenta.Il più delle volte chi non fa parte dell’organizzazione, o non conosce ciò di cui ti stai occupando è il primo a fare due cose:

  • giudicare
  • voler metterci bocca

La fatica è far comprendere il nascosto, l’attenzione anche al minimo dettaglio è essenziale. E la maggior parte di quei dettagli sono invisibili, scontati agli occhi di chi vi partecipa. Ma senza di essi, gli eventi, non sarebbero gli stessi, o sarebbero ricordati quasi essenzialmente per gli aspetti negativi di cosa non ha funzionato.Ormai gli standard settati sono molto elevati e le aspettative anche. Per questo motivo è sempre più difficile stupire e lasciare un ricordo.Instillarlo nei partecipanti è tanto complesso quanto la riuscita dell’evento stesso.È un po’ come un grande piatto preparato da uno chef. Che sia stellato o meno il preparativo richiede ingredienti di qualità che combinati insieme possono essere discretamente normali, ma se trattati diversamente dal solito possono creare un successo inatteso.Per le papille gustative dell’ospite è giubilo, senza dover conoscere necessariamente la lista della spesa, per chi sta dietro le quinte la capacità di potersi ripetere e innalzare costantemente la qualità.Benché inimmaginabili ai più, metter a fattor comune la fatica, la complessità, l’empatia necessarie, tirando fuori il meglio da tutti, rimane per me il solo metro di misura del successo.Tutte il resto, per la maggior parte incontrollabile, non può rientrare nel conteggio.

Social detox

Oltre la foresta nera

Ieri mi sono imbattuto in questo interessante post e conseguente teoria. Su come l’Internet sia profondamente cambiato e per chi, come me, c’è dall’inizio delle prime interazioni online determinate da piattaforme sia complicato ritrovare se stessi in una dimensione ormai impazzita.

When I used the internet as an actual adolescent in the 1990s and as a young adult in the 2000s, this wasn’t the case. I blogged everyday. Message boards were how I learned to test theories and debate ideas. These communities were small enough that people knew each other, but big enough that there was diversity of opinion and conversation. You could vehemently disagree with someone about politics in one thread while agreeing just as passionately with them about movie sequels in another.

I had no problem being myself online then. But now it feels different.

A lot of this difference is on me. I’m older. I have more at stake. But it’s not just me that changed. The internet did too. The internet went from a venue for low stakes experimentation to the place with some of the highest stakes of all. With the rise of online bullying,, and even, the internet became emotionally, reputationally, and physically dangerous. It became the dark forest. Our digital selves became evidence that could and would be used against us. To keep safe we exercised our right to stay silent and moved underground.

Internet è diventata una foresta nera, complicata da discernere e comprendere, difficile, per chi la abita, districarsi ed essere sé stessi.Un tema a me assai caro. E diretta conseguenza dell’avvento sei social network, dove l’apparire conta più dell’essere. Ed essere sé stessi diventa una faccenda tremendamente complessa. Io ho adottato una soluzione simile a chi ha scritto il post.Scrivere quotidianamente, sul blog, per me è una medicina fenomenale per essere sempre di più e apparire sempre di meno.

There’s tremendous value in coming into yourself as a person. Why wouldn’t that be true online, too? Recognizing that my online self was lacking, I made a commitment to learn how to be myself on the internet.

I started with a simple exercise. For one week, I would tweet twice a day. (Normally I tweet about once a month.) I wouldn’t try to impress or be cool. I would try to be real and share what was actually on my mind.

The next step in my digital self-acceptance was to try sharing my dark forest self with the larger internet. After sending my last email about the dark forest, I posted it on Medium. I wasn’t expecting a response, but the piece blew up. In the last two weeks, more than 100,000 people read it around the world.

The dark forest theory struck a chord. And it’s no wonder: many of us struggle to be ourselves online. We’re wary of showing who we really are outside our dark forests. But we’re also learning there are trade-offs. Our dark forests can become black domains with little connection or influence on the outside world.

E Stadia Fu

Finalmente alle porte dell’E3 2019, Google risponde a parecchie domande sortemi dopo l’annuncio di Stadia dello scorso 20 marzo.

  • Il costo del servizio è variabile e alquanto confuso sui contenuti offerti. Il che lascia spazio a molte altre domande. Al momento i tagli sono due Stadia Pro a un prezzo mensile di 9,99 € il quale sembra dare accesso a una serie di giochi gratuiti sullo stile di Game Pass di Xbox. Stadia Base invece permette di accedere gratuitamente alla piattaforma, ma è necessario acquistare singolarmente i giochi.
  • La domanda spontanea è: nel primo tier si ha accesso a tutta la libreria o solo a una selezione di giochi e poi sarà comunque necessario acquistare titoli AAA?
  • Specifiche di connessione. L’infografica di seguito è molto esplicita. E per gran parte dell’Italia sarà un bel bagno di sangue.

Google Stadia

Ieri pomeriggio durante le battute iniziali della GDC 2019, Google tira fuori dal cilindro Stadia. Unisce i puntini dei tanti servizi, ma soprattutto infrastrutture, ad oggi messe a disposizione del mercato consumer e non, e li mette al servizio di un concetto di gaming sicuramente non rivoluzionario (OnLive, Project xCloud e PS Now), ma che al momento non ha ancora visto una sua forma compiuta: sfruttare la potenza di un hardware remoto e l’ampiezza di banda della Rete attraverso il cloud per raggiungere qualsiasi gamer in qualsiasi luogo del mondo purché davanti ad uno schermo connesso, un pad in mano, ma soprattutto una connessione decente.Quindi non davvero dappertutto. [youtube https://www.youtube.com/watch?v=vsaenNSjclY?feature=oembed]

Le premesse e i mezzi tecnici teoricamente ci sono tutti. E al di là un naming decisamente discutibile, Google attua almeno a livello concettuale, mostrato con pochi secondi di demo pad alla mano, il sogno di ogni gamer, liberarsi dalla “schiavitù” della precoce obsolescenza di una componente PC o console e pensare solo e unicamente a giocare.Interrompendo su uno schermo e riprendendo a giocare nell’esatto punto su un altro. Il tutto accessibile tramite un link. Un link per condividere un salvataggio, un link per farsi raggiungere online da un amico, un link per guardare il gameplay di uno YouTuber e iniziare a giocare proprio da quel punto preciso. Non inventa nulla di nuovo Google, i checkpoint in un gioco e i salvataggi esistono da una vita, caratterizzarli come ipertesto raggiungibile in qualsiasi frangente è il vero punto di forza innovativo.Una logica stuzzicante. Tutto deve essere condiviso. Ora e subito. In puro stile YouTube, tanto che il controller pensato da Google, il vero e unico hardware presentato oggi ma con un design già vecchio e troppo simile a quello PlayStation, avrà integrato sia un bottone per lo sharing istantaneo di un frame o di un video di quanto giocato, ma anche un altro per richiamare Google Assistant e farsi aiutare a superare un punto particolarmente difficoltoso all’interno di un videogioco. Un pad wireless ha un più alto “secondaggio” di latenza rispetto a un pad con filo, e questo giocherà un ruolo ancora più importante in un servizio del genere.L’hardware remoto powered by AMD promette di essere più potente più di PS4 Pro e Xbox One messe insieme. Permettendo di giocare in 4K e a 60 fps con già in programma di arrivare a 8K e 120 fps in una seconda fase, salvo ovviamente che si abbia una connessione decente, altrimenti il gioco sarà scalato a 720p. Sebbene non ci fossero titoli degni di nota e comunque già visti sulle console dei competitor, Google oltre ad aver annunciato l’apertura di una divisione dedicata a titoli first party si è detta più che aperta a sperimentazioni cross play con altre console.Fin’ora tutto bello. Ma è qui che iniziano le domande ostiche, alle quali ancora non si hanno risposte, ma immagino e spero che l’E3 di giugno possa diradare gli aspetti oscuri della faccenda:

  • Qual è il costo del servizio?
  • Ci sarà un abbonamento o si pagherà l’acquisto o il noleggio di un singolo gioco?
  • Quali sono i requisiti minimi di banda da avere per poter accedere decentemente al servizio e non vedere a video ciò che accade realmente 1–2 secondi dopo?
  • Quanto sarà difficile fare porting di giochi da Sony o Microsoft ad esempio, ad oggi con basi installate notevolmente più grandi?
  • Quanto dobbiamo fidarci sulla longevità e mantenimento di un servizio Google? La storia recente ha strascichi importanti in tal senso (Google+ o Google Reader giusto per citarne un paio)

Domande fondamentali per il successo o la morte prematura di una rivoluzione tanto attesa in un mercato in costante ascesa.