Quei due sulla banchina
Milano Games Week 2019
Ho volutamente ritardato il post odierno per dare spazio alla mia vera passione, i videogiochi.Oggi è un giorno un po’ speciale, è quel giorno dove ogni anno con i ragazzi di Fuorigio.co ci troviamo alla Milan Games Week e proviamo a dare una sbirciata a quanto il mondo videoludico ha da offrirci, farci testare, ma soprattutto raccontare.
Come sapete abbiamo chiuso il progetto l’anno passato, ma ognuno di noi continua a mantenere sul proprio blog, chi più chi meno (anzi Lorenzo ha aperto JustIndie.net da poco), uno spazio dedicato ai videogiochi.Come dicevo, il post di oggi voleva essere l’annuale nostra reunion e celebrazione della nostra intramontata e intramontabile passione.Vi avrei voluto raccontare delle decine di videogiochi testati, delle ore spese in fila, del fatto che come anno i ragazzini siano più della stampa addetta, che tipicamente si prende il venerdì come giorno di testing, di una ricca concentrazione di offerta.Eppure non posso farlo.
Quest’anno, almeno per me, la Milan Games Week lascia l’amaro in bocca e mi ha fatto uscire dai padiglioni della fiera dopo sole 2 ore.C’era davvero poco. Quello che c’era è già uscito sul mercato da un pezzo e le novità in uscita nei prossimi mesi ridotte soltanto a dei meri video. Caso eclatante lo stand di Cyberpunk 2077. Coda già dalla prima ora e molte aspettative, per poi entrare in un quadrilatero con un mega schermo dove girava il trailer che chiunque si può gustare comodamente a casa e concludere l’esperienza con due spillette.
Xbox purtroppo molto sottodimensionata rispetto a Nintendo e Playstation che comunque mantengono alto il livello di allestimento e di giochi proposti, sebbene come detto con novità scarseggianti.Poi camminando tra gli stand con i ragazzi ci siamo accorti di una cosa lampante prima di varcare la soglia dell’uscita: gli stand più grandi ed eclatanti erano dedicati agli eSports, ai creators e agli YouTuber.
Tutto il resto era una serie interminabile di banchetti di magliette, statuette, e cianfrusaglie di varia natura.Personalmente non ho respirato più quell’atmosfera di passione di un mercato che si sta concentrando in una direzione diversa, ma come si dice è il mercato bellezza.Peccato. Forse solo Lucca Comics ha in questo momento qualche cartuccia da sparare a livello italiano, altrimenti meglio rivolgersi alle fiere di settore all’estero.P.s.: La cosa più bella della giornata è questo shooting a 180° allo stand di Canon Italia.
In orario
I messaggi hanno sostituito le telefonate. E a me sta bene così.
With so many digital avenues now available for reaching someone, the problem with phone calls is not that they’re inconvenient. It’s that they’re gauche. Especially for young people who tend to use their phones constantly, text messaging has become a roiling conversation that never really begins or ends.
There’s often just as strong an expectation of an immediate answer to a text as there has traditionally been to a phone call-a phenomenon probably familiar to you if your significant other has ever fussed at you for tweeting or posting to Instagram Stories while you’ve left him or her on read. A phone call might still carry a more explicit demand for attention, but it’s actually far easier to explain being unable to answer a call than a text.
Lo spunto arriva da un articolo di The Atlantic. Seppure la tesi sostenga che una telefonata oggi giorno sia molto meglio di un messaggino, in quanto quest’ultimi hanno creato un’aspettativa di risposta e una tensione non indifferente tra i soggetti in gioco, io resto a favore del testo scritto.Personalmente ho sempre ritenuto la telefonata una scocciatura, una perdita di tempo fatta di formalismi ai quali non mi sono mai troppo abituato, mentre sono perfettamente a mio agio con email, chat e quant’altro.Inoltre negli anni ho sviluppato i giusti “anticorpi” per affrontare serenamente le aspettative di risposta. I tempi li detto io, ovvio salvo emergenze, di quanto poter e dover rispondere.Si chiama comunicazione asincrona e forse troppo spesso ce ne dimentichiamo.
La musica che non c’è più
Dove sono io ora? Dove sono andato? Dove è finita la mia musica?
Ho scoperto musica che mi piaceva negli ultimi vent’anni. Ma le canzoni che mi hanno emozionato come mi capitava un tempo, in cuffia con il volume al massimo nella mia camera di studente, si contano sulle dita di una mano. Quattro o cinque in tutto, in un periodo molto lungo. Non ve le elencherò. Nei due decenni precedenti erano state invece centinaia, anche se molte di queste — ne sono convinto — rimangono solide certezze solo perché collegate ai meccanismi del ricordo e del rimpianto.
Il post di ieri di Massimo racconta una realtà molto comune. O per lo meno è ciò che vivo anche io nei miei mid 30s.Al di là dell’improvviso imbruttimento della musica, provo ad aggiungere la mia personale esperienza.Le canzoni pop e mainstream si sono via via accorciate, per permettere una fruizione veloce mordi e fuggi, sempre di più escono singoli ed EP invece di album proprio per rispettare questa logica. Questa è la prima diretta conseguenza dell’avvento delle piattaforme di streaming, le quali nel tempo sono riuscite a creare dei comportamenti al limite dell’isteria. L’accesso a una libreria pressoché infinita di brani fa scattare spesso la voglia di voler ascoltare il più possibile di un genere musicale, stando dietro alle nuove uscite del venerdì, così come le varie playlist suggerite.L’abbondanza crea dipendenza da ascolto superficiale. Molto raramente si ascolta un album fino a consumare la batteria dello smartphone e ci si emoziona ancora più di rado.Per vendere bisogna uniformarsi alle logiche contemporanee del mercato, anche se serve passare attraverso una musica inascoltabile (che poi per alcuni non lo è affatto ovviamente), e sono sempre più rari quegli artisti che prediligono la fedeltà al proprio stile musicale sopra le logiche di mercato. Dal mio personale punto di vista sono questi a rimanere gli ultimi baluardi di una produzione artistica seria.Insomma, se da un lato Spotify ci ha liberato dalle catene dell’inaccessibilità dell’ascolto, dall’altro ci ha relegato a un mondo di musica superficiale che passa dalle nostre orecchie con rapidità senza lasciare emozioni o ricordi. Quelle che ci riescono il più delle volte sono fuori da qualsiasi classifica Billboard e non ne sente parlare nessuno. Il vero lavoro da fare su quelle piattaforme da parte dell’utente è cercare quelle gemme nascoste e tenersele strette fino alla prossima playlist.
Discutere. Sì, ma per quale motivo?
In tanti anni di presenza su molteplici social network, raramente mi è capitato di partecipare a discussioni accese e ritrovarmi invischiato nel sadico meccanismo di controllo spasmodico del mio turno per esprimere la mia opinione.In questi giorni sono rimasto coinvolto in questa rarità. E le conclusioni a cui sono arrivato sono diverse e talvolta contrastanti.Mi sono domandato se avesse senso, fosse importante, portasse a qualcosa di costruttivo scrivere su Facebook mie opinioni personali, talvolta ruvide, per aggiungere il mio punto di vista a una discussione che comunque sarebbe lo stesso terminata in un binario morto.
Mi sono domandato invece perché non farlo. Perché rimanere impassibili, auto-eliminarsi da un discorso, che come detto sarebbe comunque finito su un binario morto, e lasciare spazio a una sola corrente di pensiero giustificandosi privando di importanza il fatto che lo scambio di opinioni avvenisse online e per di più su un social network.Mi sono domandato se il vortice di spreco di energie, il coinvolgimento emotivo, il rilascio di adrenalina valessero la pena. Se fossero soltanto dannosi per la mia sanità mentale oppure nascondessero qualcosa di diverso.Per mia natura non sono capace di lasciar perdere. Da non confondere con l’attaccare briga o fare il leone da tastiera come oramai piace tanto dire. Mi sono sempre reputato rispettoso dell’opinione altrui, anzi prego che tutti abbiano la possibilità di esprimerla.E così mi sono risposto. Lasciar perdere anche una insignificante discussione online talvolta è la mossa migliore. Per prima cosa perché il più delle volte non ho la titolarità né le competenze per aggiungere qualcosa al discorso. Ma quando si passa sul piano del giudizio e delle opinioni personali credo sia importante esserci, farsi sentire, con modi e tempi aderenti all’educazione e rispettosi della legge.Lo star zitti equivale a far passare una sola linea di pensiero, ad uniformarsi, al dover per forza aderire a una corrente che il più delle volte vuol far credere di essere onnisciente, sopra le parti, nel giusto perché utilizza il buonismo come leva giustificativa.Sì, è solo una diamine di discussione nell’etere. Ma quando è messa a repentaglio la libertà di esprimersi e rappresentare un contraddittorio, allora è giusto farsi sentire sempre e comunque.
Fare marketing rimanendo brave persone
Del libro di Giuseppe Morici mi porto a casa sia delle nuove idee su come trattare il mio lavoro quotidiano, sia accorgermi che perseguo la stessa volontà di narrare un brand attraverso i giusti tool a disposizione. O almeno mi sembra di farlo.Ho salvato questi due passaggi in chiusura del libro, si stagliano sopra tutti gli altri concetti per come si dovrebbe intendere questo mestiere, sia da chi lo fa quotidianamente, sia da chi dall’esterno spesso si sente il dovere di giudicare quando fatto.
Il marketing — se fatto bene, con onestà, con trasparenza e soprattutto con rispetto — è un’attività generativa di senso e di significati, a tratti persino meritoria forse, che aiuta le persone a vivere in un mondo più piacevole, perché fa loro conoscete le soluzioni utili per risolvere i loro problemi. Offre alle persone narrazioni, storie di marca, dalle quali le persone potranno, se vorranno, usufruire, godendone i valori e le emozioni, oppure semplicemente come fonte di intrattenimento.
Il marketing che ci piace — certamente — vende. Ma non vende tutto. Non a chiunque. E certamente non a tutti i costi. Il marketing che ci piace crea, ispira, ricorda, incanta, racconta, coinvolge, stimola, migliora. E soprattutto, nel più profondo rispetto del presente e del passato, si prende cura del futuro.
Mi permetto nel mio piccolo di voler aggiungere una sola postilla all’ottimo saggio, ricco di spunti ed esempi interessanti e snocciolati nella loro struttura.Per chi fa marketing, il proprio lavoro è estremamente agevolato se a monte esiste un prodotto eccellente. Mi spiego meglio. Apple ha una reputazione di alto livello anche grazie alla qualità del proprio prodotto, idem tanti brand che le persone amano e fruiscono quotidianamente. Non dico sia semplice raccontarli, ma si hanno molti più stimoli nel narrarli e trovare spunti creativi per presentarli al pubblico.Se la qualità della merce o del servizio offerto è scadente, povero nelle sue proprietà intrinseche, il mestiere di chi si occupa di marketing diventa estremamente difficile e potrebbe sfociare nella deriva che nel libro viene descritto come marketing cattivo.
Dieci
In dieci anni sono successe un sacco di cose. Ho lasciato e sono ritornato nella stessa azienda per ben tre volte, storie d’amore, ho visitato 18 Stati (alcuni più volte), ho fondato Fuorigio.co, due operazioni chirurgiche, ho intervistato sulla blogosfera con #WhyIBlog, conosciuto persone eccezionali e altre meno, visto la tecnologia esplodere in una escalation difficile da prevedere nel 2009, ho iniziato a postare una volta al giorno senza mai saltare dal 1° gennaio 2019.Oggi credo potrei chiedere davvero poco altro dalla vita, specialmente sapendo cosa ha in serbo per me il 2020.Se c’è una cosa che però non è cambiata mai è questo luogo.Non ho mai mirato alla gloria, non ho mai voluto diventare famoso o influencer e non ho mai inserito uno straccio di pubblicità o cookie qui dentro. Forse è anche per questo che le visite non sono mai esplose del tutto.All’inizio però con il blog mi sono anche divertito parecchio, non che adesso non sia un passatempo, ma sai, c’erano le blogfest, qualche azienda mi contattava per recensire i suoi prodotti o fare qualche attività carina, scrivevo con una media di tre post al giorno, e sembrava esserci una reale connessione tra chi scriveva, tanto da chiamarsi blogosfera. Tanto da portare qualcuno a chiamarsi blogger, a farla diventare una professione vera e propria.Poi qualcosa è cambiato.I blog non andavano più di moda, le persone si spostavano di piattaforma in piattaforma, a caccia di uno spazio dove meglio mostrare il proprio ego e finalmente esaudire i propri desideri voyeuristici: erano arrivati i social network.Con estremo ritardo rispetto al resto del mondo, anche qui le immagini e la consumazione snack di contenuti stabilì le sue fondamenta senza più andarsene. YouTube prima, Facebook e Instagram poi premiavano (e in alcuni casi ancora oggi) il contenuto veloce da consumare, che con poca fatica da parte di chi creava tanto quanto da quella di cui fruiva si andava online in pochi minuti.Una nuova élite.Dal canto mio non mi hanno mai interessato quelle derive, sia per motivi di approfondimento del contenuto, sia per avere completo controllo proprio su quel contenuto. Sono rimasto fedele alla mia home page, alla mia URL, insomma a dover aprire un browser e smanettare spesso di codice per restare al passo coi tempi.Come tante volte ho scritto, non penso cambierò mai questa mia convinzione, uno spazio personale, riconoscibile, scevro da incessante rumore di fondo, resta ancora oggi una preziosa casa dove rifugiarsi per raccontare qualcosa senza dover badar troppo ai dettami di metriche, like, follower etc.Se c’è una cosa che ho imparato in questi 10 anni è l’impossibilità delle altre piattaforme di fare altrettanto. E mentre altri come me amano rimanere ancorati a una pagina bianca con pochi altri ammennicoli al seguito, per conto mio non posso che chiudere dicendo grazie. Prendo spunto da un recente post di Om Malik.
As much as I love reading long magazine articles and books by the dozen, nothing makes me happier than thinking out loud on a blog. It is the easiest form of writing for me, and it allows me to fully capture what is going on in my mind (which, as you may have noticed, can be very random).
These days, it is popular to have a newsletter and a podcast — and I have those too — but for me, blogging is the future. If you like to read, come along. If not, it’s okay. I will be over here, just doing my thing. I am hoping to blog more frequently and to take a more traditional approach to blogging — links, photos, short posts, and long essays.
Scrivendo qui ho conosciuto meglio me stesso, ho superato sfide che pensavo di aver perso ancora prima di affrontarle, ho acquisito conoscenze ed esperienza indispensabili per il mio lavoro. Non fosse stato per il blog non avrei girato il mondo seguendo la mia passione per i videogiochi e la comunicazione. Non fosse stato per questa mia idea di voler condividere, forse non sarei l’uomo che sono oggi.Non so dire se ad oggi per chi si affaccia al potere della condivisione sia ancora il mezzo indicato, il potere delle immagini è imbattibile, d’altro canto reputo rimanga uno strumento indispensabile per conoscere e conoscersi.
I don’t see the blog as work, to me it’s more like a part of living
Esattamente.Fino al prossimo post.
The Game
Terminato The Game ammetto di non aver molto da commentare. Lo stile di Baricco è arzigogolato e pieno di iperboli linguistiche, ma molto facile da comprendere, coinvolgente e trascinante per chi ama la materia.Il fil rouge del testo è rappresentare internet e l’evoluzione tecnologica di questi ultimi 70 anni come un’escalation evolutiva innescata dall’avvento dei videogiochi. Sotto gli occhi di tutti, le dinamiche videoludiche si nascondono in ogni pertugio della rete eppure vengono ancora demonizzati per la troppa violenza o concause di catastrofi ed eccidi di massa provocati dall’uomo.Mi sono segnato alcuni passaggi per me interessanti e da portare con me nella costante esplorazione della connessione fra umani sia essa fisica od online.Il primo spunto parte proprio da qui. Ridurre, ma in senso positivo quindi sintetizzare, le nostre due nature in una sola in fondo. Quando leggete o vi parlano de “il popolo del web”, non siamo sempre noi? Non è sempre la stessa gente che incontrate per strada che semplicemente è tornata a casa ed ha acceso un device?
Attrezzare il mondo di una seconda forza motrice, immaginando che il flusso del reale potesse scorrere in un sistema sanguigno in cui due cuori pompavano armonicamente, uno accanto all’altro, uno correggendo l’altro, uno sostituendosi ritmicamente all’altro
Questa definizione di connessione costante, lo scollamento del nostro io dal nostro corpo per frammentarsi i tanti piccoli pezzi e ritrovarsi altrove, perso in un mondo composto da infinite derive è una narrazione forte, piena di significato utile a raccontare l’esperienza di ognuno di noi attraverso l’etere.Difficile non essersi sentiti almeno una volta così:
Incroci. Colleghi. Sovrapponi. Mescoli. Hai a disposizione cellule di realtà esposte in un modo semplice e velocemente usabile: ma non ti fermi a usarle, ti metti a LAVORARLE. Sono il risultato di un processo per così dire geologico, ma tu le usi come l’inizio di una reazione chimica. Colleghi punti per generare figure. Accosti luci lontanissime per ottenere lo forme che cerchi. Percorri velocemente distanze enormi e sviluppo geografie che non esistevano. Sovrapponi gerghi che non c’entravano nulla e ottieni lingue mai parlate. Dislochi te stesso in luoghi che non sono tuoi e vai a perderti lontano. Lasci rotolare le tue convinzioni su ogni piano inclinato che trovi e le vedi diventare confusamente idee. Manipoli suoni facendoli viaggiare dentro tutte le loro possibilità e scopri la fatica di ricomporli poi di nuovo in un suono compiuto, forse addirittura bello; fai lo stesso con le immagini. Disegni concetti che sono traiettorie, armonie che sono asimmetriche, edifici che disegnano spazi in tempi diversi. Costruisci e distruggi, e ancora costruisci, e poi di nuovo distruggi, in continuazione. Ti servono solo velocità, superficialità, energia.
Infine, un ultimo tratteggio di quello che personalmente ho interpretato come il fenomeno di questi ultimi 10 anni. Gl influencer. Siano essi blogger, youtuber, instagrammer etc. etc., sono tipicamente quelli che hanno compreso prima di tutti gli altri le potenzialità di una piattaforma non dal punto di vista puramente tecnologico, ma dal punto di vista narrativo. Hanno visto prima degli altri come utilizzarla nel modo corretto per trasformare una propria narrazione in una sorta di potere, monetario o di follower, d’opinione o lavorativo. Indubbio dire che siano stati in grado di formare un’élite.Quanto e come si evolverà dipenderà soltanto da quale sarà la prossima piattaforma.
Non tutti sono uguali davanti al Game, alcuni giocano meglio altri peggio, e quelli che giocano meglio finiscono per condizionare il resto del tavolo da gioco, a rigirarlo come fa comodo a loro, a diventarne in certo modo i sorveglianti, o almeno i primi player, diventando qualcosa che possiamo tranquillamente chiamare col suo nome, per quanto adesso ci sembri sorprendente: diventano un’élite.