Di RSS, feed e di come la tecnologia non muoia, ma si trasformi

Sono bastati poco meno di 5 giorni per dimenticarci di Reader, il più diffuso lettore di feed RSS, dopo che ne è stata annunciata, e poi avvenuta, la chiusura per il 1 di luglio.Ah, si, se non sapete cos’è un RSS reader, sappiate che utilizzate la tecnologia RSS tutti i giorni. Leggere qui.E’ bastato così poco tempo perché da quando si è appresa la notizia molti player del web hanno compreso l’opportunità di poter entrare in un mercato, se così si può chiamare, sostanzialmente monopolista e praticamente fermo dal punto di vista dell’innovazione cercando di creare un prodotto aderente alle richieste degli utenti.

E l’importante in questa corsa alla conquista di qualche milionata di utenti è stata la velocità d’esecuzione e il farsi trovare pronti al momento giusto, creando un prodotto multipiattaforma, accessibile da qualsiasi device e che mantenesse la sincronizzazione di ciò che si è letto altrove.Qualcuno ci è riuscito meglio, altri ancora stanno rincorrendo, ma sostanzialmente la corsa si è fermata a 4/5 importanti alternative che segnalo di seguito:

Trovo inutile prodigarmi nell’illustrazione dettagliata di tutti i servizi e sul perché abbia scelto feedly, la scelta fatela da soli in base alle vostre esigenze, oppure cercate un po’ quale più funzionale.L’interessante è ritrovare anche nell’evoluzione delle tecnologie in Internet il riflesso di ciò che è la storia dei media. Nulla muore, ma si trasforma nell’adozione e la fruizione.Gli RSS, probabilmente, considerati troppo vetusti per meritare un’altra stagione sopravvivono alle logiche di monetizzazione e guadagno semplicemente perché funzionano e sono diventati imprescindibili per chi di Internet ne fa un luogo d’informazione innanzi tutto.Chiudo con la metafora di Marco Arment:

RSS represents the antithesis of this new world: it’s completely open, decentralized, and owned by nobody, just like the web itself. It allows anyone, large or small, to build something new and disrupt anyone else they’d like because nobody has to fly six salespeople out first to work out a partnership with anyone else’s salespeople.

Ps. Se ancora ogni mattina quando vi alzate non avete ancora capito che sono le news che possono arrivare da voi e non il contrario, ancora non avete compreso come utilizzare il Web. Questo video del 2007 ve lo spiegherà:[embed]https://youtu.be/0klgLsSxGsU\[/embed]

Siamo ciò che condividiamo

Medium offre sempre ottimi spunti di riflessione. Oggi ho trovato quello di Callie Schweitzer, direttrice Marketing e Comunicazione di VoxMedia, uno dei principali editori online degli Stati Uniti (The Verge, Polygon). Il suo riguarda il fatto di non essere completamente onesti quando su Internet condividiamo noi stessi, ma spesso, a caccia sempre più di un’audience piuttosto che amici o persone con cui semplicemente scambiare dei punti di vista, ci troviamo a dare un’immagine di noi stessi più vicina al socialmente condivisibile che alla realtà delle cose.

The internet is supposed to be a place where everyone can be themselves and find like-minded people. But what we’re seeing right now is a faux intimacy. We think we know people so much better because of the internet, and the information it puts at our fingertips, but we really know them less. We know only what they put out there about themselves. In 2013, you are what you share.

Il blogger autore

Ho finalmente trovato il tempo di rileggermi il post di Luca a commento di un articolo pubblicato su Le Monde sul declino del blog.Buono spunto di riflessione e interessanti le citazioni, soprattutto quella del blogger francese Thierry Crouzet. Con questo post traccia molto bene quanto le cause del declino dei blog siano da rintracciare tra i blogger stessi e, soprattutto, nella stampa.Quella vecchia stampa spesso bistrattata ai tempi d’oro della blogosfera, è riuscita, grazie a una profonda trasformazione del proprio prodotto online, nell’intento di fagocitare i tanti autoproclamati scrittori con un’alta propensione allo spam e alla ricerca di notorietà, di click e di un pubblico sempre più vasto, rinunciando fondamentalmente a loro stessi e a ciò che un luogo come questo dovrebbe essere.Quello stereotipo di blogger, è come un autore di libri che pensa di cambiare il mondo con i suoi scritti, ma in realtà si è soltanto piegato su se stesso e su di esso.

La blogosphère est exsangue. Il n’existe plus que des blogueurs vaguement connectés par affinité, certains encore assez populaires. Ils ressemblent désormais aux auteurs, à ces hommes et ces femmes qui écrivent des livres. Nous avons pensé changer le monde, nous nous sommes au contraire coulés dans ses replis les plus anciens.

Tuttavia come dice Luca, le cause sono note e ricercabili su una più bassa attenzione alla qualità a discapito dell’ampiezza di contenuto, derivante ovviamente dal dilagante successo dei Social Network.E’ indubbio il fatto che in luoghi del genere essere qualitativamente alti, partecipando con spessore alle discussioni attraverso un contribuito d’effetto diventa complicato. Difficoltà prodotta dalla rapidità di concatenazione nel processo di pubblicazione e aggiornamento dei contenuti. Ma sono anche luoghi, come detto all’inizio, ospitanti di un bacino enorme di contatti, dove il blogger del nuovo millennio si può crogiolare.Ed è forse per questo motivo che diverse compagnie stanno riadattando i propri prodotti allo scopo di concentrare il meglio dei due mondi blog-contenuti e utenti-quantità, come ad esempio Quora, un servizio di forum evoluto diventato da poco piattaforma di blog con un ampissima base di lettori, o Svbtle dove alcuni imprenditori digitali, giornalisti o semplicemente geek hanno deciso di concentrare i loro sforzi in un unico posto. Oppure Medium.Medium non apporta nulla di rivoluzionario al concetto di personal online publishing, è una piattaforma di blogging da poco creata da uno dei fondatori di Twitter, Ev Williams, e fa del contenuto di qualità il suo pregio maggiore. elegando ai Social Network la funzione di piattaforma di commento al contenuto generato.Non so se questo sarà il futuro della pubblicazione personale su Internet, tuttavia credo che la semplificazione degli strumenti a disposizione traccerà una linea netta tra la masticazione veloce di messaggi sintetici e l’approfondimento riflessivo di un post.Medium è ancora su invito, per ora ci scrivono dipendenti di Twitter e qualche amico, tra cui Alberto.

Fuorigio.co

Lo scorso Novembre io, Fabio, Gioxx, Lorenzo S. e Lorenzo G. davanti a 5 pizze e altrettante birre, abbiamo discusso a lungo sullo scrivere di videogiochi, su come viene fatto oggi in Italia e come lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle negli anni passati.In meno di mezz’ora abbiamo comprato il dominio e buttato giù una bozza disegnata di quello che oggi finalmente prende vita: Fuorigio.coDire di aver preso come modello Polygon sarebbe un’esagerazione troppo grande, non ne avremmo le forze, né il tempo materiale. Tuttavia la voglia matta di condividere questa nostra grande passione ci farà tenere sotto traccia questo modello.

Fuorigio.co sarà un aggregatore dei nostri pensieri e recensioni di ciò che giochiamo nel nostro tempo libero e abbiamo deciso di far confluire lì i nostri sforzi perché sappiamo che in tanti vivono il mezzo videoludico nelle nostre stesse modalità. Non c’è niente di meglio che essere nei panni di ciò che si sta leggendo.Indi per cui tutto quello che riguarderà l’argomento da ora in poi lo troverete sempre più di là.Oggi 1.3.13 apriamo, questo il nostro post d’apertura.

Lo stretto perimetro dei videogiochi

Su La Lettura di ieri (purtroppo non c’è ancora una versione online), inserto domenicale di cultura e società abbinato al Corriere della Sera, c’è un articolo di Tom Bissell, critico e giornalista videoludico, ove tratta dei perimetri dei videogiochi tendenti a sconfinare sempre più nel mondo delle esperienze narrative tipiche della letteratura.

Con buona pace di chi ancora abbia da prendersi la briga di obiettare su l’equiparabilità dei videogiochi ad altre forme di produzione umana, Bissell enfatizza il fatto che il mezzo videoludico necessiti ancora di estenuanti critici negazionisti del fatto che meriti un posto nell’olimpo dell’arte. Questo perché i videogiochi stessi ne trarrebbero il giusto giovamento per continuare il processo di ricerca e innovazione di nuove forme narrative ancora inesplorate, e per cercare, ancora una volta, di scuotersi di dosso il vestito di testimone responsabile di tutte le stragi commesse nel mondo civilizzato negli ultimi tempi.Ma è veramente così? Autori, producer e sviluppatori hanno veramente bisogno di qualcuno che gli ricordi costantemente il loro mestiere sia la causa del male del mondo e non sarà mai equiparabile a un libro, a un film o a una pièce teatrale?Una condivisibile risposta viene dalla tastiera di Lucy Prebble su The Guardian. In alcuni passaggi sottolinea quanto il mezzo sia simile alla scrittura:

I think it’s linked to writing. Like writing, gaming is essentially private and individual (although it really doesn’t have to be). It is creative, in comparison to the passivity of watching a film or reading a book. You are making choices and, often, are even designing the world yourself. And, perhaps most crucially, it is controlling.

L’importante differenza di percezione della violenza e di come viene strumentalizzato il mezzo a giustificazione di determinati comportamenti:

But perhaps the real problem is that most of the high-profile games are obsessed with violence and with warfare in particular. When there is a school shooting or any other act of violence from a relatively young person, the shooters the shooters played are always reeled out, just as film, television and music have all been called on before, to display exactly how this erosion of morality began. No mention that everyone else of that generation was playing them too and somehow managed not to become convinced that by walking over food or ammunition they would somehow magically “pick them up”. “But don’t you know they use Call of Dutyto desensitise soldiers before they send them out to Afghanistan?” I hear people say. “How can you possibly support that?” As if the most reprehensible thing about sending a teenager to another country to kill strangers is the manner in which we attempt to prepare them.

Anyone who has ever been unfortunate enough to suffer violence, or to perpetrate it, understands inherently that there is a difference. It is surprising and heartening how few of us in the west have, when we think about it. But the crack of a fist against jaw in real life, or the scream of a man from an alley, or the sight of blood in a woman’s hair between blows — these are moments that, when actually experienced, fade the fake destruction of worlds on a screen into mute monochrome. Real violence is never forgotten. And it belittles it and patronises people to imagine that we cannot tell the difference

Io non so se i videogiochi hanno veramente necessità di una continua relegazione ai bassi fondi culturali dell’umanità per poterne uscire rinnovati, compresi e migliori. So per certo però che c’è ancora bisogno di un nuovo paradigma di comprensione. Perché si è ampiamente dimostrato che si è in grado di far meglio del cinema, non ancora del tutto credo della letteratura, forse mai dell’arte. Ma a differenza dei primi due è l’unico campo che ha ancora un ampio, ampissimo margine di innovazione, sperimentazione e esplorazione. Per non parlare dell’interazione uomo macchina, inizialmente esplorato da Nintendo con Virtual Boy e Power Glove, nei tempi recenti ancora lei con Wii Motion Control e Microsoft con Kinect.Viste le cifre di vendita, credo che il tema violenza poco preoccupi chi i videogiochi li produce, e credo nemmeno gli interessi far cambiare la percezione sull’argomento. Credo invece sia compito di chi di videogiochi ne scrive, li vive e li fa propri cercare di raccontare l’esperienza che rimane e i valori condivisibili di un’esperienza sensoriale completa.Il famoso effetto catartico associato ad arte, cinema e letteratura in un poi così lontano passato.

Movimento contro la disinformazione sui videogiochi

Deal, coupon & co.

Chi non ha mai utilizzato uno di quei siti che propongono coupon/buoni sconto per acquistare prodotti o servizi online a prezzi vantaggiosi?Non c’è bisogno di nascondersi so che lo avete fatto anche voi. Pare che l’Italia vada abbastanza forte in questo settore, complice il fatto che, nonostante siamo ancora un popolo molto reticente all’acquisto via Internet, non sappiamo resistere all’impulsività di acquistare online qualcosa a prezzo scontato.Magari beffeggiando il nostro migliore amico, tapino, che pochi giorni fa aveva acquistato la medesima cosa a prezzo raddoppiato.Una scenetta paradisiaca, con sconti sostanziosi, a volte anche oltre il 50% per ristoranti, prodotti elettronici, cure sanitarie e le fantomatiche cavitazioni che nessuno ha ancora capito cosa siano.

Questa sera mi sono imbattuto nella lettura di questo post, devo dire molto critico, su Business Insider. Tutto rivolto a quelle società la cui natura e scopo si sono moltiplicati a vista d’occhio anche nel Bel Paese. Tanto che qualcuno piuttosto ferrato e appassionato dell’argomento ha pensato bene di creare un aggregatore (vi consiglio di usarlo, molto utile).Dunque, dicevo del post su Business Insider.Mi ha fatto venire in mente che la sola, la fregatura, qualche volta è dietro l’angolo. E non parlo soltanto di chi ha acquistato il coupon che probabilmente dovrà attendere tempi non indifferenti per poter prenotare una cena, o attendere che il prodotto elettronico ordinato sia effettivamente in stock. Mi riferisco soprattutto al mondo del business, ai piccoli commercianti e coloro i quali, pensando di fare un investimento di marketing si sono ritrovati a perderci piuttosto che guadagnarci.Eh, si perché questo tipo di servizi internet trattiene una larga percentuale della transazione finale effettuata da chi acquista, e il ritorno per la società fornitrice del bene o del servizio non è certo quantificabile tra le voci di guadagno.Quello che mi dà più da pensare è il piccolo ristoratore che, ad esempio, decide di dare via 400 pasti completi, per due persone, a 29€ invece che 89€. Quanto gli rimane in tasca, ma soprattutto, si sarà fatto una clientela abituale? Non credo.I clienti abituali di quel ristorante e decidono volontariamente di pagare 89€ a pasto, difficilmente conoscono questo tipo di siti, e probabilmente storcono il naso nel vedere che qualcuno sta pagando 60 euro in meno, ma mangiando le medesime pietanze. Senza dimenticare il fatto che chi sta mangiando per 29€ in un ristorante che di solito ne vuole 89 difficilmente ci ritornerà una seconda volta, perché sa, in cuor suo, di essere stato il più furbo di tutti.Di punti positivi ce ne sono, ne sono certo, altrimenti non ci sarebbero così tanti clienti, così come le molteplici offerte tra le quali scegliere. penso al passaparola e al ristorante consigliato ad amici e parenti. Probabilmente molti altri che al momento mi sfuggono.Quello che mi domando, da avido utilizzatore, è quanto ancora questo modello di business possa andare avanti ed essere sostenibile, visto che lo scenario futuro riportato dall’articolo non sia tra i più confortanti. La questione è controversa, mi appassiona, tuttavia non essendo un esperto di modelli economici e di business non mi saprei pronunciare in tal senso, nel frattempo che ne pensate?

Super 8

Un po’ Goonies, un po’ E.T., un po’ Lost.Se mi chiedessero cosa sia Super 8 dopo averlo visto, risponderei così. È un film per nostalgici, non un film da andare a vedere al cinema, ma un film da guardare.

Il primo elemento comune con gli altri film di fantascienza di Spielberg (che di Super 8 ne è solo il produttore) è l’accadimento dello straordinario in un mondo con regole ordinarie, stravolto d’improvvisto da qualcosa altro.Come in E.T., questo altro è una presenza aliena, ostile per gli uomini, ma vicina ai bambini. I soli in grado di comprendere. E come in E.T. sono gli unici in grado di far trovare la strada di casa agli “invasori”. Come in Goonies c’è un gruppo di amici che non sa come passare la propria estate, i profili dei personaggi sono speculari, e la dualità bene/male la stessa.Ho visto la mano di J.J Abrams, (qui regista, ma sceneggiatore di Lost) esclusivamente nell’interpretazione dell’alieno. Schivo, poca presenza scenica, svelato solo all’ultimo. Mi ha ricordato subito il fumo nero di Lost.E’ un film per chi non si riesce a staccare dagli inizi degli anni ’80, citazioni e riferimenti in continuazione, un film per chi si ricorda ancora quando la tecnologia era riservata a pochi e in mano di chi sapeva sognare diventava fantascienza.E’ solo questo che salva l’opera dal non essere banale, di film di questo taglio se ne sono fatti molti e ancora se ne faranno, lasciando la critica dibattere sul motivo per il quale vengono prodotti.Me lo sono chiesto ieri sera appena uscito dal cinema. La sola risposta che mi sono dato è che c’è ancora un tipo di Cinema in grado di raccontare i sogni di chi lo crea.

You are the King, Content is Queen

Oggi pomeriggio ho chiuso le sessioni singole della Open Conference durante il Social Business Forum 2011. Purtroppo ho dovuto abbreviare i tempi della discussione perché si è andati lunghi durante la giornata, ma spero di esser riuscito a far passare ciò che avevo per la testa.E’ difficile mettere insieme le emozioni che provocano la passione per questa materia con i risultati tangibili. Ci vuole uno sforzo solo, quello di leggere tutto con l’occhio di una persona, non servono abilità speciali, se non quella innata socialità che è in ognuno di noi, come sosteneva Rousseau già qualche centinaio di anni fa.Ringrazio Stefano per l’inaspettato invito e rinnovo il piacere di aver passato la giornata con Piero (che ha spiegato egregiamente parte del mio concetto nel suo post), Noemi, Mauro, Gianluca (che alla fine non sono riuscito a citare:-)) e con Wolly durante il pranzo.Per chi non fosse riuscito a partecipare qui di seguito alcuni concetti chiave e subito dopo le slide della presentazione.

  • Considero personalmente che non valga più l’assioma “Content is King” o meglio che non sia mai valso. Siamo noi, aziende/consumatori ad essere “King”. Questo perché siamo noi ad avere il controllo sulle nostre azioni online. “ Content is Queen” preferisco dire, perché così come vale per una Regina, il Re cerca di curarla e corteggiarla nel miglior modo possibile. L a Regina come un buon vino deve saper attrarre e instaurare interesse nelle persone
  • Il Contenuto nient’altro è che la moneta di scambio di azienda e persone, queste ultime il vero valore della comunicazione nei Social Media
  • Bisogna pertanto lavorare bene e duramente sui contenuti, ma è fondamentale poi concentrarsi sulle Relazioni
  • Il valore di un Like o di un Follow è pari a zero se non si attiva quel processo di Relationship tale per cui azienda/utente sono costantemente in contatto reciproco
  • Le aziende devono capire oramai che se vogliono sfruttare questi strumenti e diventare così sempre più consumer-centric non possono più ignorare il vero valore che esiste su Internet: le persone
  • Ignorare tutto ciò porta inevitabilmente a delle situazioni poco piacevoli
  • Il vero Valore online non consiste nel numero di Fan, follower o di Like, ma dall’interazione che l’azienda è in grado di instaurare e mantenere con le Persone. Quelle che amano il brand e i prodotti di quest’ultima
  • Per tutti i fan dei numeri: Non tutto quello che vale è misurabile, così come non tutto quello che è misurabile vale

Tra Social Media ed Engagement: perché non è importante solo ascoltare

L.A. Noire

Pubblico per intero la recensione scritta per Wired.it andata online oggi:Chi ama seguire il medium videoludico da vicino ha sicuramente sentito queste affermazioni numerose volte. Saranno in grado i videogiochi di offrire qualcosa di nuovo? Di mai visto prima? Riusciranno a stare al passo con i tempi reinventandosi?Il mezzo è ancora giovane, una quarantina d’anni scarsi, e ha ancora tantissimo da dare sotto il profilo interattivo uomo-macchina, tuttavia troppo spesso le software house si sono focalizzate sulla battaglia “per la migliore grafica” o sul “minimo sforzo di sviluppo, con il massimo ritorno economico”. Per fortuna c’è chi ancora è in grado di sognare, proprio come nel Cinema, ed è in grado di percepire in modo cristallino tutte le potenzialità che il mezzo videoludico può racchiudere.Team Bondi, una piccola azienda di sviluppo software di Sydney, annuncia nel 2005 un titolo in esclusiva per Playstation 3, completamente ambientato in una Los Angeles post-bellica della fine degli anni ’40 soffocata da corruzione, droga e criminalità.Rockstar Games, il colosso famoso per aver pubblicato le serie GTA e il fortunatissimo Red Dead Redemption dell’anno passato, intravede le potenzialità del team (di cui tra l’altro alcuni membri svilupparono il bellissimo TheGateway) e decide di diventarne patrocinatore annunciandone poi una versione anche per Xbox 360.Ma un sogno per essere realizzato richiede tempo, il gioco, infatti, compare sugli scaffali di tutto il mondo solo il 20 maggio 2011. La motivazione di tanto ritardo è presto detta. Il Team Bondi ha realizzato internamente unanuovissima tecnologia per il “facial motion capture” ovvero quella tecnologia che permette di riprodurre fedelmente le movenze del volto all’interno di un gioco, denominata MotionScan. Per ottenere i risultati vicini al fotorealismo che possiamo apprezzare in L.A. Noire ha richiesto molti anni di studio, ma ha instaurato per certo una nuova frontiera sia nella digitalizzazione della mimica facciale, sia nell’attuazione di una verosimile azione attoriale e artistica mai vista prima in un videogioco. I personaggi principali del gioco, di fatti, sono tutti attori professionisti in carne ed ossa che hanno recitato oltre 50 ore di dialoghi e passato oltre 2000 pagine di sceneggiatura, per essere poi digitalizzati e riproposti nel gioco con uno spessore degno di qualsiasi film di genere.Su di essa si fonda tutto l’impianto di gioco. E da qui parte il nostro viaggio dentro una serie poliziesca catapultata in un videogioco. Da far rabbrividire Orazio Kane e la Signora in Giallo.L.A. Noire è un spettacolo per gli occhi e per la mente. E’ un gioco free-roaming che fa dei film noir il gancio di traino per slanciare questo mondo spesso troppo bistrattato nell’Olimpo dei mass media.Ci troviamo a Los Angeles nel 1947 e vestiamo i panni dell’eroe di guerra Cole Phelps, un impavido poliziotto, appena tornato dal secondo conflitto mondiale, pronto a vendersi il fegato pur di mantenere la sua integrità morale intatta e far prevalere la legge sulla Città degli Angeli. Inizieremo la nostra carriera come semplice poliziotto del traffico, per poi progredire come detective assegnato a vari distretti Omicidi, Traffico, Incendidolosi e Narcotici.A nostra disposizione per risolvere i vari casi che si proporranno nel corso della storia, 21 totali, una serie infinita di prove e indizi, nonché la capacità analitica della quale ogni buon detective deve essere dotato. Il lavoro fatto da Team Bondi è magistrale in questo senso, dovremo essere in grado di soffermarci su ogni piccolo particolare della scena del crimine, collegare prove ed indizi, fino al punto cruciale per la risoluzione di un caso: gli interrogatori.Interrogare persone e indiziati, osservare acutamente le loro reazioni tramite le loro espressioni facciali, studiarne le contraddizioni, le paure e i timori, arricchisce l’apparato emozionale e, da qui, le nostre decisioni; fondamentaliper la risoluzione del crimine. Decidendo se credere a ciò che ci viene detto, dubitarne, o incolpare qualcuno forti delle prove raccolte durante le nostre perlustrazioni. I 21 casi su cui siamo chiamati ad usare il nostro intuito,potrebbero benissimo essere 21 puntate di un serial, tanto è facile immergersi in una trama e sceneggiatura scritte con impegno e cura per i dettagli.Il nostro personaggio, fiancheggiato da partner via via diversi in base ai distretti nei quali siamo assegnati, acquisisce punti abilità da spendere immediatamente nel gioco, chiedendo alla comunità online di suggerire la prossima risposta durante un interrogatorio, oppure svelare immediatamente tutti gli indizi che ancora restano da rintracciare sulla scena del crimine.Le perlustrazioni avvengono in una città che non è una Los Angeles immaginaria, ma è una perla di rara bellezza, fotocopia di quella del 1947 realizzata partendo da studi topografici, rilevamenti fotografici (se ne contano oltre 110.000), palazzi realmente esistiti, siti storici fedelmente ricostruiti nello stato in cui versavano a quel tempo. La ricerca del dettaglio è maniacale, al punto che il serial killer che viene presentato in una serie di casi, soprannominato Black Dalia, è realmente esistito in quel periodo terrorizzando la popolazione losangelina.Il comparto grafico spesso soffre di questo, l’ampiezza data dalla vivacità della città, l’interattività di ogni singolo passante, lasciano spazio ad evidenti cali di frame rate e povertà nella realizzazione di molte texture. Tuttavia ci sembra illogico penalizzare un capolavoro del genere che lascia spazio a imprevedibili scenari futuri, dove il videogioco non sarà soltanto grafica e velocità, ma emozioni e introspezione.Il sonoro è molto curato. Grandi successi del tempo riproposti nelle autoradio delle macchine che scorrazzano nelle strade cittadine, mentre le musiche che fanno da colonna sonora ricalcano sonorità famigliari dei pilastri senza tempo del cinema hollywoodiano fedeli al genere poliziesco.Quello che non ci è piaciuto è stata la decisione di Rockstar di non supportare l’edizione italiana con un doppiaggio degno di nota, ma anzi, lasciare la traduzione in lingua italica ai soli sottotitoli. In un gioco dove bisogna guardarele espressioni facciali per carpire il più recondito pensiero, è una scelta di bassissimo livello condannare chi è poco avvezzo alla lingua inglese il dover seguire i dialoghi leggendo i sottotitoli perdendo così il pathos di quantotrasmesso dai muscoli del viso.L.A. Noire è vastissimo, ha una longevità tra le 25 e le 30 ore di gioco, senza contare tutte le sottomissioni disponibili, e la tanta voglia di rigiocarlo per azzeccare in modo corretto tutti gli interrogatori e sbloccare quanti più punti possibile. E’ da considerarsi fino a questo momento il titolo più atteso su console per il 2011, aspettando la fiera più importante al mondo dedicata all’intrattenimento videoludico che si terrà proprio a Los Angeles tra qualche giorno. C’è di tutto, una solida base di avventura grafica con una spruzzata di film poliziesco e libro giallo in un crescendo che porta all’intreccio di più fili in un’unica avvincente trama che richiederà tutto il nostro intuito per essere risolta.Ci si attende ora un seguito, o quantomeno una trasposizione cinematografica dedicata. Perché di carne al fuoco ce n’è tanta e Rockstar Games saprà sicuramente sfruttarla come ha fatto con GTA nel recente passato.