Non so da quanto tempo stai leggendo questo blog, ma se mi segui da qualche anno magari ti sarai accorto del mio interesse per la musica e le piattaforme di streaming.

Di musica ne ascolto molta, forse troppa, e anche se questo non fa di me un esperto ho sempre cercato di comprenderne i mutamenti attraverso la voce di chi dall’interno la crea o ne cura lo sviluppo e la diffusione. Infine l’ho toccata anche marginalmente nel mio precedente ruolo in Italia curando la comunicazione per questi due eventi.

Probabilmente non è un settore in cui avrò mai interesse lavorare. Resta però tremendamente affascinante la tangente tra tecnologia e musica ed è anche argomento della newsletter di Andrea Girolami dello scorso 8 aprile.

Come scrive molto bene Andrea le piattaforme di streaming musicale sono ormai un treno in corsa difficile da fermare ed è bene anche ricordarne l’importanza:

Sono state proprio le vituperate piattaforme streaming (Spotify e soci) a salvare il mercato discografico dalla voragine in cui era caduto dopo l’arrivo di Napster e del file sharing nei primi 2000. Nonostante questo gli artisti continuano a pensarne tutto il male possibile.

Comprendo fin troppo bene la dinamica dei compensi che risiede dietro un singolo ascolto di un brano e di cui si sta parlando sempre di più ultimamente. C’è chi paga di più, c’è chi paga meno, ci sono le discografiche, ci sono i diritti e alla fine all’artista sembra di non guadagnare sufficienza dalla musica che produce. E quindi via a tutta una serie di collaterali necessari per la sopravvivenza: tour interminabili, merchandising, esposizione sui social.

Queste piattaforme ci hanno abituato ad accedere sostanzialmente a qualsiasi brano mai prodotto per una ridicola cifra se paragonata alla spesa destinata all’acquisto di album fisici di qualche anno fa. E da questa abitudine sembra impossibile tornare indietro. Chi ci vede lungo ha capito come aggirarla, come asservirla ai propri scopi e trarne il massimo vantaggio:

Più gli artisti si dimostrano capaci di appropriarsi del rapporto con la propria audience, creando community intorno i propri contenuti, e più riescono a catturare il valore rimasto nella musica, sottraendolo agli intermediari con cui hanno a che fare, dalle case discografiche fino alle piattaforme.

Non so dire se questo sistema resterà sostenibile per tanto a lungo, o se così facendo stiamo mettendo in pericolo la creatività di giovani artisti che decideranno semplicemente di abbandonare questo tipo di carriera artistica perché comprendono di non riuscire a camparci. E non ho nemmeno in mente una valida alternativa.

Non credo sia possibile affrontare la stessa strada che ad esempio i creator hanno scelto nel diventare indipendenti e farsi pagare un abbonamento per quanto condiviso online. Questo significherebbe sostanzialmente tornare al modello precedente, ovvero pagare a ogni singolo artista ogni singolo lavoro prodotto. Solo che:

Il mondo in cui gli artisti potevano decidere come e quando distribuire i propri contenuti non esiste più e oggi è il pubblico che detta il ritmo della musica.

Lo stesso pubblico che è ben felice di poter ascoltare tutto quello che vuole ad un prezzo modico, e, purtroppo per Blake e per il suo nuovo rivoluzionario portale, le cose non sono destinate a cambiare a breve.

Ma soprattutto c’è di mezzo Internet. Che ha reso il concetto del tutto gratis e subito onnipresente e dal quale le persone difficilmente si staccheranno, ma anzi, troveranno sempre nuovi modi per poter accedere a contenuti senza tirar fuori un singolo euro.

Il cortocircuito sembra essere in evitabile in qualsiasi direzione si guardi. E come per il resto dei contenuti si tratterà solo di vincere la battaglia per l’attenzione, resta da capire quali saranno gli strumenti e a quale prezzo.