Questioni di barba: Philips OneBlade è la svolta
Dopo circa un anno e mezzo di utilizzo, posso serenamente affermare di aver trovato il rasoio della vita.Non ho particolari esigenze di taglio, non tengo la barba lunga, e la taglio regolarmente dopo un paio di giorni. Tuttavia avendo la pelle delicata il rasoio è sempre risultato troppo irritante, mentre i classici trimmer non mi facevano ottenere il risultato sperato, costringendomi praticamente a radermi quotidianamente.Poi, forse per la prima volta in vita mia, Facebook ha iniziato a martellarmi con la pubblicità di Philips OneBlade. Un rasoio non rasoio. Dopo qualche settimana, incuriosito, ho iniziato ad approfondire l’argomento.Visto il costo contenuto, ho voluto fare un tentativo. Da quel momento non ho mai smesso di utilizzarlo.È delicato con la pelle, lascia un effetto taglio di mezza giornata (che è l’effetto che preferisco avere) quindi non ve lo consiglio se abbiate bisogno di un taglio perfetto stile lametta.Elenco di seguito qualche pro e contro.
Pro
- È delicato al passaggio, generalmente preciso e il processo di taglio dura molto molto meno rispetto alla consueta combo schiuma-lametta
- Si può passare a crudo senza nessun problema
- Indispensabile per chi viaggia
- I modelli più avanzati dispongono anche di varie misure per mantenere il taglio su barbe di diverse lunghezze
- Durata batteria di settimane, così come la lametta intercambiabile dalla durata di 4 mesi
Contro
- Non ha un sistema di raccolta peli, quindi in generale si spargono ovunque dentro e fuori dal lavandino
In conclusione, mi sento di consigliare fortemente l’acquisto per chi come me non ha sbattimento di farsi la barba e nemmeno lo ha di farsela crescere.★★★☆ [youtube https://www.youtube.com/watch?v=hB9KGOQ1Buw?feature=oembed]
La felicità è il vero ROI
Gary Vaynerchuk è conosciuto per essere il prototipo del workaholic. Se lo seguite da un po’ sapete che trova felicità nel proprio lavoro, a tal punto da farlo coincidere anche con il proprio tempo libero, proprio perché per lui fonte di relax, eccitazione e divertimento.Se non lo avete mai sentito nominare, beh non vi siete persi molto, davvero. GaryVee è uno che ce l’ha fatta, ha cavalcato quest’epoca frenetica, ne ha compresi gli strumenti e il loro utilizzo per guadagnarci attraverso molte società da lui fondate, libri, public speaking e molto altro.Non ho mai amato il suo stile. Così come il suo linguaggio volutamente ed eccessivamente colloquiale e ricco di cursing. I suoi video sono spesso e volentieri l’emanazione di un guru dell’ovvio. Così come i suoi consigli si possono applicare soltanto se ci sono delle condizioni pre-esistenti rispetto all’ambiente in cui essi dovrebbero essere applicati.Tuttavia il concetto espresso in questa puntata del suo vlog ha del senso per me.
“La felicità è il vero ROI”
L’obiettivo che ci prefiggiamo ogni mattina appena svegli, quello che inserireste in un eventuale piano quinquennale, è una cosa materiale o un’esperienza?Fa poca differenza. L’importante è se vi siate chiesti la domanda delle domande, mi renderà felice? O è solo uno sfoggio per far vedere a qualcun altro di aver fatto o acquistato qualcosa?È una deriva pericolosa, oggi più che mai facilmente raggiungibile dagli effetti sociologici e psicologici causati in larga parte dall’egocentrismo e la sovraesposizione del sé all’interno dei Social Media.Ognuno trova la felicità come meglio crede, dove meglio crede. Attenzione a non confonderla con schiavitù chiamandola con un altro nome.[embed]https://youtu.be/VpJebo1oDO4\[/embed]
L’essenza dell’essere qui
Valentina, dimmi la verità, che pensi di me? Come sono visto da fuori?Lo sai cosa penso di te.Dimmelo ancora.Penso che sei anonimo e inespressivo, quando parli sembra che c’hai uno strofinaccio in bocca e non si capisce un ca**o, non ti lavi e ti vesti da sfigato di sinistra quando il mondo va tutto da un’altra parte. Questo penso.Nient’altro?No, a posto così.
Nel 2003 avevo 20 anni. Usciva il film Ricordati di me. Erano anni in cui nelle sale principalmente i teen-drama facevano da padroni. In breve: una lunga serie di luoghi comuni e cliché inseriti in storie dall’effetto catartico per i giovincelli dell’epoca.Mi è rimasta impressa questa battuta. Soprattutto: … il mondo va tutto da un’altra parte. L’ispirazione per il post di oggi, di cui avrei voluto scrivere soltanto come aggiornamento di piattaforma che in realtà si è trasformato in altro, arriva da Alessio:
Ho cominciato a postare in maniera più consistente su Instagram. Lo trovo carino, mi permette di associare ad un’immagine in formato 1:1 (tipo Polaroid) un piccolo post-it con dei pensieri volatili. È però qualcosa che considero di seconda categoria, non perché non siano contenuti di qualità2, ma perché nel momento in cui tappo il pulsante “Pubblica”, quelle foto e quei pensieri vanno a finire sul server di qualcun altro.
Qualcun altro che un giorno chiuderà baracca e burattini, e andrà tutto perso. Qualcun altro che nasconde ciò che penso e ciò che vedo per privilegiare post sponsorizzati di utenti con i follower spesso e volentieri comprati. Un regno dove le metriche, volentieri alterate, hanno la meglio sulla qualità. Un regno dove malvolentieri ti metti il cuore in pace sul fatto che se fai qualcosa di strabiliante non verrai notato da nessuno.
Credo siamo finiti in un tra i vari cross posting. Tuttavia questo paragrafo si sposa perfettamente con la mia idea di postare qui le mie foto e quel quote iniziale del film.Il mondo va tutto da un’altra parte.Come qualche anno fa le condivisioni degli scatti avvenivano soprattutto su Flickr, oggi Instagram sembra quasi imprescindibile. Ma per quale scopo? Aumentare i fan? Mostrare qualcosa ai nostri amici? Accrescere il proprio ego? O solo per il comune giubilo per cui così fan tutti?Affidare i propri ricordi al machine learning, ordinati tramite speciali algoritmi e alla speranza che il pubblico a cui mi sto rivolgendo forse vedrà ciò che io ho da dire mi ha anche un po’ stufato. Non sono alla ricerca di risposte alle domande qui sopra, ho solo il piacere di condividere con chi ha voglia e tempo di ascoltare.Andrò controcorrente, sarò anacronistico e probabilmente anche un po’ antipatico. Ma ad un certo punto chi se ne importa. Il mondo social, e questo weekend abbiamo forse avuto l’esempio più importante di tutti, bada a logiche ben precise. Ci vogliono impegno, talento, tempo e continuità. Come dice Insopportabile, non nasce tutto dal niente. Ma come dice sempre lui:
I social sono ciò che decidiamo di comunicare, il buco della serratura dal quale le persone possono vedere solo la piccola parte che decidiamo di far vedere della nostra sterminata casa.
Ecco. Questa è la mia “sterminata casa”.Perciò cercherò sempre più spesso di pubblicare le foto a cui tengo particolarmente sulla rinnovata sezione foto e sempre meno sugli altri canali.
Nove
Il rito di celebrare l’inizio di qualcosa può apparire ai più il trasferimento del mero concetto di compleanno a qualcosa di inanimato.Per me è il ricordo di non abbandonare me stesso a luoghi altri dove il mio contenuto si perderebbe in rigagnoli fatti di algoritmi e logiche di business avulse ad esso.Questo è diventato il centro del mio mondo online, l’incipit e il fine delle mie ricerche quotidiane di materiale di mio interesse, il mio impegno di scacciare la superficialità e conciliare il tempo a mia disposizione con il profondo contenuto.Se non fosse per via del mio lavoro le piattaforme altre le avrei già abbandonate da un pezzo, mantenendo forse solo Twitter come mia unica lente sul mondo sincrono.Proverò seguendo esempio di altri, limitando sempre di più la loro fruizione a favore di qualche accorgimento:
- Limitare le notifiche
- Stabilire l’abitudine di non guardare più nessun social network dopo le 22
- Dedicarmi stabilmente alla lettura di un libro prima del sonno invece di farmi rapire dal mio smartphone
- Proverò ad attivare una nuova sezione del blog completamente dedicata ai miei scatti fotografici per condividere quelli per me più significativi qui, anziché altrove.
Così come 9 anni fa, quando questo luogo ha preso vita, lo scopo di tutto questo non sono le visite o aumentare il numero di lettori (qui non c’è mai stata pubblicità). È mantenere viva la mia voglia di imparare e condividere ciò che reputo più interessante con chi ha voglia di farsi tediare un po’.Buona vita.
Volevo vivere di videogiochi, ma ho fallito
La (buona) stampa videoludica non interessa ai publisher e ai produttori di videogiochi, alle aziende economicamente investite in questo settore, alla cosiddetta industry. Della qualità di una recensione all’industry italiana non frega niente, men che meno di sapere che c’è gente che finisce i giochi e può quindi parlarne a ragion davvero veduta, che ci sono professionalità maturate nel corso degli anni, e che hanno a cuore innanzitutto il rispetto per i lettori (e potenziali acquirenti) e per il valore dei loro acquisti.
E perché mai dovrebbe fregargliene qualcosa? I publisher hanno sempre considerato la stampa specializzata un male necessario con cui dover bene o male fare i conti, ed è stato così fin quando le recensioni erano in grado di condizionare il mercato e le vendite.
Oggigiorno — nell’epoca degli youtuber, degli influencer, delle campagne promozionali e delle iniziative di marketing, della brand awareness e di tutto il resto — il valore misurabile di una recensione è sceso sottozero. Le recensioni non spostano di una copia le vendite dei videogiochi, e chi pensa il contrario è un illuso. Ergo, chi se ne frega del diritto del potenziale cliente a essere informato se un gioco merita o no i suoi (sudati) soldi.
Claudio Todeschini, ex-caporedattore di The Games Machine, fa una lunga analisi della polvere nascosta sotto il tappeto di molti siti (non parliamo di carta stampata) che parlano di videogiochi in Italia.Ora, delle tante ragioni elencate per le quali la stampa videoludica italiana non è forse mai decollata, voglio sottolineare soprattutto quella citata qui sopra.Nel mio piccolo non ho scritto molto a lungo, le mie esperienze maggiori sono state su Everyeye.it e successivamente con Fuorigio.co. Soprattutto durante i 5 anni di Fuorigio.co, realtà imparagonabile con quelle delle più grandi in Italia, ci siamo dovuti scontrare con le logiche del marketing più e più volte. Il traffico del sito è stata la metrica che ha avuto sempre la meglio rispetto alla qualità delle nostre recensioni, belle o brutte che fossero.
In quei casi in cui i codici ci venivano forniti per fare ciò che sapevamo fare, ovvero parlare di qualcosa di cui siamo appassionati e che nel tempo abbiamo imparato a raccontare nel modo più comprensibile possibile per chi non ne avesse gli strumenti per comprenderla nel modo corretto, accadeva perché chi lo faceva ci conosceva personalmente o sapeva quale fosse la nostra storia passata nel settore.Come scrivevo proprio ieri in un commento che lasciato sulla bacheca di Marco, un ragazzo con tanta passione e che si sta sforzando a tenere insieme le community videoldudiche con annessi siti di informazione, purtroppo l’attenzione delle software house si è spostata sulle piattaforme odierne. Attrae e viene premiato di più uno youtuber o instagrammer che fa streaming di ciò che sta giocando e infila qualche battuta qua e la, ma che ha racimolato migliaia di follower più per la sua personalità che per le sue qualità giornalistiche.Non è che guardando un tizio su YouTube (per carità, ci sono tanti super competenti) si apprenda di più, si accresca maggiormente il proprio spirito critico o si comprendo meglio un videogioco… Se ci si pensa un secondo, la persona davanti allo schermo potresti essere tu se solo avessi una telecamera, una buona connessione e una minima capacità di editing così come tanto tempo libero.Bisogna discernere qui una cosa fondamentale. Il critico videoludico deve essere due cose, un giocatore e un giornalista. E per giornalista non intendo un’iscrizione ad un albo, ma la capacità di comprendere, assimilare e rielaborare in maniera critica e costruttiva l’argomento.Come? Con lo studio. Con l’esperienza. Con la passione. La sintesi di ciò l’ho vista e letta in poche persone in questi anni. Mi sarebbe piaciuto diventare uno di questi, ma ho fallito. Prendo un altro pezzo del post:
Perché un editore dovrebbe pagare uno stipendio normale, diciamo 1500 euro al mese, per una persona che — se va bene — può scrivere una ventina tra recensioni e anteprime e andare a qualche evento, quando con la stessa cifra può pagare dieci o più ragazzini che garantiscono diverse centinaia di news, anche se scritte male, e senza alcun criterio giornalistico, e comunque qualche recensione e anteprima sicuramente la fanno comunque, ché tanto il gioco glielo regalano?
Non c’è neanche da porsi la domanda! Del resto, il mercato del lavoro in questo settore è peggio del Far West: sono le Wasteland di Mad Max, senza nessuna regola e senza nessuno che si prenda la briga di farle rispettare. Non ci sono barriere all’ingresso, non ci sono norme, non c’è controllo e non c’è volontà alcuna di cambiare le cose.
Questo è il punto più vero e che forse, personalmente, mi fa più male. Quante volte nei miei anni da universitario ho sognato di campare di questo mestiere, traslare ciò che giocavo, testavo o intervistavo in una forma accessibile e comprensibile a chi di giochi non ne capiva nulla o a chi di giochi invece sapeva anche più di me, ma attendeva con avidità di essere informato su questo o quell’aspetto di un gioco?Semplicemente mi sono dovuto arrendere all’evidenza. Quando, in un passato non troppo lontano, ho pensato più e più volte di intraprendere questa carriera, addirittura ho anche pensato di mettermi in proprio e tirare su un sito di informazione videoludica, ho dovuto gettare la spugna proprio per queste ragioni.Di questo mestiere purtroppo non si campa. Non in Italia. E non tanto perché circolino stipendi bassi. Non ne circolano. Punto. E quegli editori che possono permettersi di avere a libro paga qualche dipendente a tempo indeterminato, hanno uno staff che non supera le dita di due mani.La stragrande maggioranza delle firme che trovate sui siti italiani ha sicuramente un altro lavoro, lontanissimo dal mondo dei videogiochi, oppure ha all’attivo moltissime altre collaborazioni come giornalista. Ed è questo il motivo principale per il quale Fuorigio.co non è sopravvissuto a queste logiche.Di sola passione non si campa purtroppo. Almeno non qui.
Notifiche irritanti
Il loop in cui l’avvento delle app (di ogni genere, non solo quelle dei social media) ci ha trascinato è un baratro pericoloso in cui è facilissimo cadere e altrettanto semplice scaricare la batteria del proprio smartphone nel giro di qualche ora.Luca ne scrive sul suo blog.
Il mio telefono non suona mai. Non un trillo, non una vibrazione, niente.
Le notifiche hanno lo scopo di interrompere quello che stiamo facendo per ottenere immediata attenzione. A me non interessa essere interrotto.
Per questa ragione ho disabilitato tutte le notifiche e consento solo la visualizzazione del numero di messaggi non letti vicino ad alcune applicazioni che sono importanti per me.
Se ricevo un messaggio su Telegram, per esempio, l’unica cosa che appare é un piccolo “1” a fianco all’icona. Quando ho tempo apro Telegram e lo leggo. E solo se mi va, rispondo.
Ho letto un altro post sullo stesso argomento. Non sono forse così drastico come Luca, ma ci vado vicino raccogliendo anche lo spunto del secondo scritto.
It’s always easy to blame technology, but it’s important to note that it isn’t technology itself that is at the heart of the problem, but our own inability to handle it. After all, not all notifications are created equal. And in order to better understand the evolution from relevance to noise, we need to briefly talk about how we got to where we are today.
Ho adottato questa tecnica anche io ormai da molti anni. Le mie uniche notifiche attive sono quelle dei messaggi, di whatsapp (silenziando però i gruppi con più di 5 persone) e le chiamate. Tutto il resto, email comprese, vive soltanto attraverso i pallini rossi che mi indicano che c’è qualcosa che mi attende. Scelgo io, in base alla mia esperienza di utilizzo e sensibilità, quando “affrontarli”.Il mio equilibrio l’ho trovato così. Lo reputo il solo modo per riuscire a non farmi domare dal mio smartphone e dalla costante richiesta di engagement delle piattaforme sociali che più views fanno, più bigliettoni verdi si portano a casa alla fine del mese.Il FOMO nasce però ben prima dell’epopea di Facebook e Instagram e l’instancabile voglia di apparire belli e famosi. Il primo drammatico esempio sui dispositivi mobili arriva proprio con l’introduzione del diabolico push automatico delle email sul finire degli anni ’90. E da qui un’escalation inarrestabile sino ad arrivare al punto in cui la nostra testa è sempre più piegata verso il basso, con lo sguardo e una superficiale attenzione indirizzati ad uno schermo rispetto all’ambiente che ci circonda, la natura, ma soprattutto l’altro.Se non decidete a priori quali contenuti esplorare e quando è il momento corretto per farlo, c’è solo un output possibile: Distrazione (sia chi guida che non) e distruzione ( Time.com e NYTimes).La tecnologia è una cosa magnifica, e la stessa che ci ha portato le notifiche è la medesima che permette di limitarle.Il problema non è il mezzo, ma il contenuto della piattaforma e scegliere se diventare spettatori inermi o avere il controllo.
Kindle Oasis (2017) 9a generazione
Lo scorso autunno ho acquistato il nuovo Kindle Oasis da 8GB. La seconda versione del top di gamma della famiglia eReader di Amazon.
Ho deciso di puntarci per due motivi. Il primo, il mio vecchio Kindle (di ormai almeno 8 anni fa) stava tirando le cuoia e l’assenza di retroilluminazione mi stava infastidendo non poco, soprattutto nelle mie letture notturne.
Tuttavia, solo la scorsa settimana sono riuscito a utilizzarlo intensivamente.
L’Oasis ha un’ergonomia abbastanza interessante, ha una parte convessa sul retro che permette la presa con una mano sola e due tasti fisici di supporto, oltre allo schermo touch, per avanzare o retrocedere nelle pagine.
Non importa quale sia la vostra mano dominante, lo schermo è in grado di ruotare di 360° in modo da permettere di utilizzarlo indistintamente con la destra o con la sinistra.
La batteria
Mantenendo la luminosità automatica e la modalità aereo attiva e con qualche sync realizzato in Wi-Fi, la batteria del Kindle Oasis è durata 3 settimane senza la necessità di essere ricaricato. Con sessioni di lettura di intorno 1 ora e 30 min abbondante al giorno.
Sono abbastanza soddisfatto del risultato, permettendomi di partire senza cavi e senza l’apprensione che si sarebbe scaricato. Mi sarei aspettato di più, ma leggendo un po’ online si può prolungare la durata della stessa di un paio di settimane in più se si controlla il livello di luminosità manualmente e la si mantiene costantemente tra il 9 e il 10.
Impostazioni e aggiornamento pagina
Le impostazioni dell’Oasis consentono di fare moltissime cose, talune ereditate dai precedenti modelli di Kindle: condivisione sui social, sottolineare e prendere note, apprendimento di nuove lingue, un browser sperimentale, acquistare nuovi eBook etc.
Ma c’è una funzionalità sulla quale mi sono soffermato e non ne comprendevo l’utilità: Aggiorna pagina
Spulciando online ho dato conferma a quanto supposto. La funzionalità permette di attivare o disattivare il “refresh” dello schermo una volta che si cambia pagina. Cosa significa?
Se si guarda attentamente lo schermo dopo che si è girata pagina si può notare un effetto chiamato “ghosting”, alcune tracce dei caratteri della pagina precedente rimangono sullo sfondo. È un effetto molto difficile da notare, lo si inizia a percepire se si è una sessione di lettura continuativa di 100+ pagine senza aver spento o messo in pausa il Kindle. La convenienza di avere questa funzionalità settata su Spento è quella di avere una scorrevolezza più morbida tra una pagina e l’altra e un consumo minore della batteria.
Io l’ho lasciata sempre su Spento e non ho notato nessun effetto ghosting particolarmente accentuato. Scomparso subito dopo lo stand-by e la riaccensione successiva.
Mentre lasciarla su Acceso eviterà sì la comparsa dell’effetto ghosting in toto, ma si avrà un sobbalzo di una frazione di secondo tra le due pagine. C’è da specificare che di tanto in tanto il Kindle procede in automatico a fare un refresh dello schermo anche se la funzionalità è settata su Spento, idem avviene nel momento in cui il Kindle va in stand-by e poi viene riacceso.
La cover
Ho acquistato la cover in tessuto originale Amazon. Stranamente da quando ho ordinato l’eReader la custodia non è mai stata disponibile (ma ne trovate su ebay ancora intonse a prezzi decenti), né nella versione tessuto né in quella in pelle, con Amazon che suggerisce gli acquisti di accessori di terze parti. L’ho pertanto dovuta acquistare usata, ma in condizioni fortunatamente eccellenti.
Anche per gli altri miei accessori elettronici prediligo l’acquisto di accessori originali, mi è sempre sembrato che l’attenzione e la cura per i dettagli non è minimamente comparabile ai prodotti “non originali”.
Nonostante la custodia abbia recensioni mediamente negative, fa comunque il suo dovere, protegge bene la parte più importante e fragile, lo schermo, incastrandosi perfettamente con la parte concava dell’Oasis.
Usabilità
In generale il passaggio da uno schermo verticale a uno sostanzialmente quadrato non mi ha destabilizzato più di tanto, anzi, mi ci sono abituato praticamente subito. La leggerezza e l’impugnatura ergonomica consentono dopo poco di dimenticare il supporto fisico che si sta “reggendo”, consentendo di immergersi soltanto nella lettura.
La cover scelta, così come le tante altre proposte su Amazon, ha la possibilità di piegarsi su se stessa consentendo di fungere da piedistallo e utilizzare il Kindle appoggiato su una qualsiasi superficie, così come ho fatto durante il mio viaggio in aereo, lasciando l’eReader sul tavolino.
Conclusioni
Esteticamente rimane piuttosto anonimo, cercando però di distaccarsi un po’ dalla concorrenza, cambiando dopo tanti anni la classica forma a libro e abbracciando maggiormente l’ergonomia e la facilità con cui si deve reggere in mano. Riuscendoci pienamente a mio avviso.
Il materiale utilizzato per rivestire la parte posteriore è un alluminio molto resistente che non teme né acqua né sabbia. Non so dirvi la tenuta dello schermo, in quanto ho deciso di proteggerlo con una pellicola trasparente.
Tra i tanti “aggeggi” elettronici in mio possesso, il Kindle Oasis è sicuramente tra gli acquisti più azzeccati. Fa ciò che deve, lo fa meglio di qualsiasi altro (ho provato per qualche settimana un Kobo Aura HD, ma 👎🏻) e il prezzo, dopo un utilizzo intensivo, diventa più che giustificato.
★★★★
La Casa Di Carta
Finalmente ho terminato la visione de La Casa Di Carta. La serie TV Netflix di produzione spagnola, divisa in due parti, che racconta la storia di un’epocale rapina alla zecca di stato di Madrid.Il classico stile heist movie, ricalca tanti cliché del genere. I nomi di città per identificare i personaggi protagonisti, la resistenza contro il Sistema, il farci apparire i cattivi come buoni e i buoni come cattivi.L’intreccio viene snocciolato da uno dei personaggi, Tokyo, raccontato dal suo punto di vista come voce narrante. Il colpo del secolo ha una piano perfetto e studiato nei minimi dettagli dal Professore, il cervello di tutta l’operazione che mette insieme un gruppo di disperati, ognuno con la propria storia personale e motivazioni che l’ha condotto sin lì.[embed]https://youtu.be/ebPRR4CVNLU\[/embed\]La fiction ha come minimo comun denominatore il surrealismo. Dalla scelta del travestimento con l’utilizzo di una maschera di Dalì da parte dei rapinatori, fino ad alcune scene di dubbia credibilità circa l’incapacità della polizia nel poter affrontare lo “scacco matto” della banda.Queste prime due parti (sono già state confermate le parti 3 e 4) sono eccessivamente prolisse, molti episodi sono superflui per la comprensione della trama, ma forse indispensabili per approfondire molto bene il profilo dei personaggi.Senza contare i colpi di scena, stressati in maniera estrema, che caratterizzano in abbondanza ogni puntata. Il plot twist è sempre dietro l’angolo e forse anche questo aspetto alimenta l’aura di surrealismo di cui la serie è intrisa.Non mancano le citazioni e rimandi alla filmografia di genere. Le scene di stallo a “Le Iene” di Tarantino, Il tuffarsi su una montagna di soldi come in Breaking Bad, la voglia di riscatto come in “V per Vendetta”, il significato potente della “maschera” come in Superman etc. La Casa di Carta è un continuo rimando e celebrare un grande miscuglio di rivincita e libertà fatto di antipatia verso il Sistema.[embed]https://youtu.be/XYWnzNwHF0E\[/embed\]Infine, l’amore. Per come viene trattato l’argomento sembra il più delle volte di trovarsi in una puntata del Grande Fratello o Tempation Island per la facilità con cui alcuni dei personaggi cambiano partner.Tuttavia è innegabile che il fil rouge dell’amore faccia da generatore di empatia nei confronti di tutti i rapinatori, il cui profilo viene sviluppato perfettamente nel corso della serie senza scadere in stereotipi o banalità, e sarà poi l’elemento scatenante delle tante difficoltà nel procedere della rapina.
Perché guardarlo?
La Casa di Carta ha il pregio di tenerti incollato allo schermo. Regia, fotografia e colonna sonora sono eccellenti. Nonostante il costante climax di avvenimenti sia più vicino al paradosso che alla realtà, non si può fare a meno di andare avanti e scoprire cosa ne sarà del destino di questi antieroi che resistono per la libertà, senza rubare realmente a nessuno.Penso sia LA serie da seguire in questo 2018 ancora scarno di grandi colpi di scena. Dagli attori scelti, al doppiaggio eccellente in lingua italiana (benché comprensibilissima in Spagnolo, la voce reale dei personaggi non rende giustizia), La Casa di Carta è la dimostrazione di come si possano creare degli ottimi contenuti a livello locale senza dover essere necessariamente a Hollywood.E in questo Netflix sta facendo un eccellente lavoro nel portare alla ribalta attori poco famosi, ma qualitativamente molto validi, così come accaduto anche per Suburra in Italia.Sicuramente da guardare.★★★☆
Vampyr: La recensione
Gli sviluppatori DontNod, gli stessi di Life is Strange e prossimi a pubblicare Twin Mirror (uno dei pochi giochi che mi hanno colpito dell’ultimo E3), hanno rilasciato un paio di mesi fa un titolo sul quale ho messo gli occhi dall’unveiling un paio di anni or sono: Vampyr.Il gioco è ambientato nel 1918 in una Londra avvelenata e contaminata da una pestilenza non ben identificata. Vestiamo i panni di Jonathan Reid appena rientrato dalla guerra in Francia, scopriamo immediatamente di essere diventati vampiri. La prima vittima non appena riaperti gli occhi: nostra sorella.Un tratto distintivo che caratterizzerà tutto il nostro cammino per risolvere le tante domande scaturite proprio da questo avvenimento. Il nostro ruolo di medico rispettato, un ospedale dove nascondersi e fabbricare intrugli necessari ad aumentare le nostre skill e una sete di sangue perenne. Gli ingredienti di un RPG dai toni molto scuri scuri in una Londra gotica e senza speranze.Due anime. Due nature. Scoprire e sviluppare quella infima e far diventare chiunque uno spuntino dal sangue succoso, o la seconda, quella misericordiosa ma dal percorso più tortuoso. Siamo di fronte a una costante scelta su chi vogliamo essere, su come vogliamo influenzare i vari quartieri, su come vogliamo che gli altri abitanti ci considerino.Il dialogo e il testo sono tutto. In Vampyr la scelta dei DontNod è stata quella di lasciare alla fase testuale la parte più importante ove poggiare e scoprire tutto riguardante la storia. Si passa dagli appunti e lettere molto approfonditi sparsi per tutto il gioco che denotato un grandissimo studio riguardante il mondo dei vampiri, a dialoghi iper verticali da scambiare con i singoli personaggi che hanno sempre molto da dire su loro stessi, sulla situazione di Londra, sull’influenza spagnola e infine sugli intrecci con i vari abitanti del quartiere in cui risiedono.Il fulcro del gioco sta proprio qui. L’interconnessione tra i vari protagonisti dei quartieri è il vero fil rouge per comprendere le ragioni di questa strana epidemia, l’auto consapevolezza sul perché e il percome siamo diventati dei vampiri e il cercare di assolvere il peccato più grande di tutti: l’uccisione di un’amata sorella. Se la parte di combattimento l’ho trovata estremamente pessima, i movimenti di camera scomodi e poco efficaci, le mosse del personaggio ridotte praticamente a due e una poca distinzione tra le varie armi, quella dello sviluppo del personaggio è a dir poco distinta.
Mordere, uccidere abitanti, boss o i vari nemici sulla nostra strada si trasformano in punti esperienza* che permettono di sbloccare varie abilità che passano dall’aggressività fino al potere di auto curarsi. Consiglio vivamente di curare particolarmente, e di conseguenza potenziare, l’aspetto della salute così da non ripetere all’infinito alcuni combattimenti snervanti.Ho completato il gioco in una decina d’ore sulla mia Xbox One X. Ho deciso di seguire la via del caos, evitando di risparmiare chicchessia gettando Londra in una situazione di panico totale, sbloccando così circa il 70% degli obiettivi legati al gioco. Il restante 30% è ottenibile scegliendo le alternative più misericordiose.Se amate il genere, se avete giocato Vampire: The Masquerade qualche anno fa,* se l’intreccio tra videogioco e approfondimento testuale vi appassiona, beh forse allora Vampyr può fare al caso vostro. Altrimenti direi di lasciar perdere. Il gioco non fa gridare al capolavoro, ma sicuramente sì lascia giocare e ti fa venir voglia di procedere con la storia.
★★★☆☆