Errare in Sardegna

Seduto in casa mia mentre Spotify vola con la mia connessione Vodafone 30€ al mese, perché qui, nel nord della Sardegna, non si può avere una connessione internet a tempo, rifletto sullo scopo ultimo dei blog.La verità è che forse uno scopo intrinseco non ce l’hanno, diventano ciò che l’autore del post ha deciso di far diventare il suo piccolo spazio vitale. E se c’è una cosa che ho imparato in questi 10 anni, in cui ho deciso di cimentarmi nello scrivere a frequenza alternata su questi lidi, è il mio personalissimo scopo: tener traccia di come percepisco il mondo.Proprio come quell’astronauta che sta qui a sinistra. Osservare la realtà e raccontare come contamina la mia esistenza e viceversa. Non so bene se ci sono mai riuscito per davvero. Ciò che so per certo è che molti post hanno fatto incazzare gente, altri fatta sorridere e divertire.Ciò che sto per scrivere penso rientrerà nella prima categoria. Ma debbo precisare che tutto quello che segue mi provoca un dolore enorme. Perché amo l’Italia. Amo i suoi valori e ciò che ci rende riconoscibili nel mondo. Ma solo due o tre, perché nel mondo siamo riconosciuti troppe volte per cose negative, cose che purtroppo riscontro quotidianamente è che in più di un’occasione mi hanno fatto, e spesso ancora, mi fanno pensare di emigrare altrove.Ma finché le opportunità lavorative non si presenteranno in modo concreto, sarò della schiera di quelli stoici che restano qui, che cercano anche rischiando botte o la furia di qualche psicolabile lo scontro feroce con i maleducati, i menefreghisti e tutto quel genere di persone che contribuisce ad arricchire il significato negativo di quella lista di valori. Perché? Perché in troppo pochi hanno voglia di cambiare le cose, raccontare ciò che non va, per provare a cambiare.Ma se c’è, possibilmente, un’altra lezione che ho imparato nello scrivere qui, è che lamentarsi soltanto non gratifica se non il proprio ego, perché lascia le cose come sono, o al massimo risolvono situazioni singolari in modo molto egoisitico.L’Italia dovrebbe essere un Paese in grado di autosostentarsi e vivere di rendita soltanto grazie al turismo. Dovrebbe essere sempre e costantemente primatista in tutte le classifiche dei luoghi più gettonati, perché abbiamo tutto ciò che una persona in cerca di relax, cultura e divertimento possa aspettarsi da una vacanza.Eppure. Eppure è un problema vecchio quanto l’Italia stessa. Ci sono casi virtuosi, come la citatissima Emilia-Romagna, e casi meno, dove i servizi e la cortesia sono lontani da qualsiasi standard che un’educazione sana dovrebbe imporre.Ho deciso di non trascorrere le mie 3 settimane estive solo e solamente nel nord della Sardegna dopo 15 anni, ma ho speso 10 giorni nella zona di Oristano.Premessa. Per me la Sardegna è tra i luoghi che preferisco di più nel globo terracqueo. Il clima, il mare e il cibo sono entrati nelle mie vene e non credo se ne andranno mai, è uno di quei posti magici perché solo qui riesco a rilassarmi e ricaricare le batterie prima di riaffrontare le follie della città.Qui abbiamo dimora, qui i miei genitori vivono almeno 5 mesi l’anno. Una seconda casa, se così posso permettermi di dire.Ma scontrarsi con la mentalità di qui è complicato. I sardi sono un popolo meraviglioso e delizioso, ma chiuso e testardo che se sai come fare ti aprono il cuore, se no diffidano un po’ dallo straniero. Quindi non farò un discorso di campanilismo, perché immagino che come qui anche altrove esistano persone maleducate, svogliate e con l’idea di respingere il turista con disprezzo.In queste due settimane però ho constato come essere turista ed essere identificato come tale, ha degli svantaggi enormi:

  • Strane pratiche in alcuni supermercati, ovviamente non tutti, dove i prezzi della frutta/verdura vengono alzati deliberatamente perché il tuo accento non è quello giusto
  • Pagare quasi 2.000 € a testa per una struttura a 5 stelle sulla carta, quando una volta lì dargliene 4 era forse esagerato
  • Diventare invisibili per oltre 1 ora ai camerieri di un ristorante perché soltanto con l’intervento di una persona autoctona seduta al nostro fianco, e amica di un cameriere, ci ha permesso di ordinare
  • Ristoranti, tanti, che non rispondono mai al telefono -Perché non ho tempo di rispondere in questo periodo- e quando lo fanno dicono di essere sempre pieni
  • Attendere oltre 20 minuti al benzinaio perché la mia targa non è con la provincia giusta e quindi si continua a chiacchierare in dialetto con i camionisti
  • Respinti in una pizzeria di un villaggio marittimo minuscolo, con tanti posti a sedere in tavolate grandi intorno alle 14.00, “perché non c’è un tavolo per 2”

Siamo stati ben accolti soltanto negli agriturismi, probabilmente per l’ambiente familiare e l’unico posto dove siamo serviti in tempi decenti e trattati con educazione abbiamo pagato 50 euro a testa. Il che è tutto dire.Il massimo è stato fotografare cartelli come quello di seguito. Fanno sorridere, ma in realtà sono lo specchio di una situazione reale. Lontana dal turista, incurante delle sue esigenze, dove respingerlo è quasi un dovere perché disturba, sporca o inquina.Quando in realtà il turista probabilmente è solo lì per lasciare, e ben volentieri, il suo stipendio, comportarsi in modo educato e ricevere il minimo sindacabile di accoglienza. (E si, sono conscio dell’esistenza di turisti maleducati, sporchi, distruttori e ladri di sabbia).

Non so se è un quadretto a voi famigliare, riscontrato anche in altre regioni, o in altre parti della Sardegna. Ed è ovvio che non tutta la Sardegna è così, anzi. I casi virtuosi sono ovunque.Una cosa è certa, panorami come quelli qui sotto ti mettono in pace con il mondo e ti fanno dimenticare tutto quanto in pochi secondi, la gente continuerà lo stesso a frequentare questi lidi perché si sta divinamente, ma la mia paura più grande è che le cose non cambieranno mai perché tanto vai via tu — arriva qualcun altro e la ruota riparte.Basterebbe davvero poco per migliorare l’accoglienza, far diventare questi luoghi posti dove trasformare le esperienze in ricordi. Ma talvolta nemmeno il poco lo si ha voglia di fare.

Chester

C’è che sembrava andare tutto bene. Ma no. Cosa ne sappiamo noi, pubblico, così distanti dai nostri idoli e ispiratori, pensando di conoscerli come i nostri migliori amici, mentre di loro non sappiamo proprio niente se non qualcosa della loro arte?Che sarà pure un piccolo grande pezzo del loro essere, ma non abbastanza grande da rappresentarlo tutto.[embed]https://youtu.be/ZC\_-zeWYMYo\[/embed\]Ai Linkin Park ho voluto bene. Sono stati un pezzo importante della colonna sonora della mia vita. Hanno contribuito (insieme ai Limp Bizkit) a dare vita e sviluppare un sotto genere, il nu-metal, poco considerato e bistrattato da molti, ma che ha inevitabilmente segnato la storia dell’hard rock agli inizi del millennio. Forse l’ultima grande wave di un rock potente con qualcosa da dire.Parlo al passato. Ultimamente quel sound greve e grezzo ha lasciato spazio a sonorità elettroniche, più dolci, più di massa. Il culmine con l’album rilasciato proprio recentemente e per il quale il cantante Chester Bennington è stato accusato in modo piuttosto pesante di aver abbandonato il pubblico delle origini.Io tra quelli.Purtroppo o per fortuna ti leghi ad un cantante o una band perché rappresenta bene o male ciò che si ama ascoltare, le sonorità e i testi. Quando non è più così ci si sente traditi.

Come lui si è sentito tradito dalla vita.Sono andato lo stesso a sentire il loro ultimo concerto in Italia. Il 17 Giugno a Monza. Erano in coda alla lista delle band ad esibirsi quel giorno. E un po’ con quello spirito di tradimento ho deciso che no, non valeva la pena restare fino all’ultima canzone, c’era troppa gente e sicuramente avrebbero suonato tutte quelle dell’ultimo album.Me ne sono andato filmando un frame di Castle of Glass, prima di voltarmi e andarmene via. Un mese dopo, forse e molto probabilmente, i linkin park non saranno mai più gli stessi.[embed]https://youtu.be/gJLAx5RDRHs\[/embed\]Paradossalmente, Chester ha deciso di togliersi la vita il giorno del compleanno di Chris Cornell. Un’altra perdita recente troppo allucinante. A cui aveva dedicato queste parole:

Prey: la recensione

Quando ho visto il trailer di PREY per la prima volta all’E3 2016 ho avuto un leggero sussulto. FPS, alieni, una storia che cela chissà quale segreto, uno di quelli da decifrare ma scoprire lentamente, per prenderci sempre più gusto, Bethesda ad orchestrare il tutto. Sulla carta ci sono ore di divertimento.[embed]https://youtu.be/EZYkJXQ8B1g\[/embed\]Dopo circa una ventina d’ore di gioco non riesco ancora a capire se le mie impressioni iniziali sono state confermate e promosse. Le prime 5 hanno composto un’esasperante attesa che qualcosa accadesse, qualcosa di impattante, d’effetto, ma nella realtà è stata una lotta contro un sistema di shooting molto precario e poco preciso, e sinceramente morire più volte a difficoltà normale perché a disposizione si ha soltanto una chiave inglese mi ha stimolato alquanto il sistema nervoso.Non so, forse sto solo invecchiando e mi aspetto che i videogiochi mi impressionino in modo differente, ma deciso a ingoiare il mio boccone amaro ho voluto proseguire e, come per i libri, un videogioco va portato a termine. E sì, vale la pena di continuare. Non solo perché mira e armamenti vari si sistemano grazie a un sistema di progressiva evoluzione del personaggio, classico di Bethesda Software, ma ti ritrovi a scoprirti immerso per ore dentro la stazione spaziale Talos I senza nemmeno ricordarti quale fosse la tua missione principale.Questa è una precisa scelta di Arkane Studios che ci spinge a sfruttare l’ambiente circostante in maniera metodica e maniacale, che in pochi titoli ho visto sfruttato in siffatta maniera. Creare un medikit o un potenziamento in modo “ artigianale” sfruttando oggetti e materiale raccolto non è così frequente, non oggi almeno.Ma partiamo dal principio. Prey non è un franchise nuovo di pacca, è uscito già oltre una decina d’anni fa e si è sempre vociferato di un seguito, al secolo Prey 2, mai approdato definitivamente. Il progetto che vi ritroverete tra le mani è tabula rasa col passato, una nuova partenza affidata alle sapiente mani di uno studio che ci ha regalato Dishonored 2, tanto per intenderci.Impersoniamo Morgan Yu, ci alziamo una bella mattina soleggiata in un appartamento a 15 anni da oggi. Tutto sembra incastonato in una quotidianità futuristica che costituisce la fantasia di molti di noi, fatta di intelligenze artificiali e tecnologia al nostro servizio. Ma Morgan scopre ben presto di aver vissuto in una finzione fino a quel momento, fatta di esperimenti e menzogne. Scopriamo di essere nella stazione Talos I e ci troviamo ben presto di fronte alla razza aliena Typhon, interessata alla tecnologia sviluppata all’interno della stazione chiamata Neuromod, e a loro volta presente su Talos I perché oggetto di ricerca da parte degli umani, la stessa in grado di potenziare molte delle facoltà del nostro Morgan: dal riuscire a guarire in tempi più brevi a scassinare, dal trasportare pesi abnormi a costruire e riparare.Abilità che però finiranno con il farci confondere la stessa natura umana con quella aliena, dove la modifica del proprio corpo e cervello (tematica più che mai attuale), coadiuvata dalla tecnologia, sembrano privare Morgan della sua umanità. In realtà il protagonista conosce molto della sua esistenza, ma continue amnesie non gli permettono di ricordare dove si trova e perché. L’intelligenza artificiale January cercherà di portare alla luce la verità per noi. Le prime ore mi sono risultate così soffocanti perché mi è parso di essere più dentro Dead Space e a un Survival Horror dell’altro mondo, piuttosto che dentro un FPS, circondato da forme aliene che avevano sembianze più simili a delle muffe nerissime, caratterizzate da movimenti incontrollabili.Il gioco propone una colonna sonora futuristica (qui su Spotify) e molto adatta ai momenti di tensione, di solitudine, di quel silenzio che accompagna tutto il corso dell’avventura all’interno di Talos I. Certo se poi volete correre un po’, c’è spazio anche per chi il titolo l’ha portato a completamento in meno di 20 minuti…[embed]https://youtu.be/rxfQwROXRwQ\[/embed\]In definitiva la prova di forza di questa software house dopo il recente acclamato Dishonored 2, è a dir poco magistrale.Riesce a portare sui nostri schermi un’avventura in prima persona, più che uno shooter. Benché il titolo offra un’ampia varietà di armi, non è affrontandolo come Doom che arriveremo alla soluzione. Non va meglio per chi intende utilizzare un approccio stealth, per avanzeremo come vorremmo (e non come il gioco vuole per noi).Prey ci impone di ragionare su come usare le risorse a nostra disposizione, come se vivessimo in una perpetua scena di McGyver proiettata a 60 anni di distanza nel futuro rispetto alla sua messa in onda. La commistione di tanti mezzi diversi presi ad ispirazione, quali romani e film tipici della fantascienza moderna, arricchiscono il titolo di citazioni più o meno colte e ricercate. E come spesso accade a produzioni di questo genere, vi consiglio di arrivare fino in fondo, senza spegnere il televisore quando si arriva ai titoli di coda, perché ne vale la pena.Prey mi ha portato a un bivio, incanalandomi in qualcosa da affrontare con velocità, in grado di prendermi immediatamente, quando sento di avere l’estrema necessità di riappropriarmi delle ore necessarie per scoprire ogni peculiarità nascosta, anche nel potere di poter utilizzare un alimento e produrre un kit per guarire il protagonista, combinando fili rotti e un macchinario specifico all’interno del titolo.Prey ha necessità di essere trattato con estrema calma, per poterlo gustare e apprezzare inogni sua sfaccettatura, come un libro da leggere sì tutto d’un fiato, ma del quale ricorderemo ogni singola parola.

E tu, sei disposto a pagare per i contenuti che ami?

Publishing, as we know it, is broken. More specifically, publishing on the internet is broken. And more specifically still, publishing written content on the internet is broken. In an age of seemingly unlimited free content, this may be hard to perceive. But make no mistake, we’re heading down the path of a situation that’s untenable.

And you can see it right now if you look hard enough. Link-bait has given way to click-bait which has given way to slideshows which have given way to fake news. While tactics change and evolve over time, they’re all powered by the same thing: a business model predicated around the almighty pageview.

Un perfetto riassunto dell’editoria online di questi tempi. M.G. Siegler nel post a commento all’annuncio di tagli di posti di lavoro a Medium.La piattaforma di pubblicazione creata da Ev Williams, tra i fondatori di Twitter, è diventata via via nel corso degli anni un polo d’attrazione per contenuti d’alto valore. Nonostante non sia uno strumento che mi piaccia usare particolarmente come piattaforma di blogging, l’apprezzo per il network di risorse e la scarsità di baggianate.Il 2016 è stato un anno di crescita importante per Medium con 60 milioni di utenti unici al mese e 7.5 miliardi di post pubblicati.Il problema? Il modello di business. Poche le revenue provenienti dagli ads. Il perché è spiegato nelle parole iniziali che ho quotato qui sopra. Siamo stati abituati a non pagare per la fruizione di contenuti online e così ci aspettiamo che sia ogni volta che accediamo ad un sito.Problema opposto, la sostenibilità di suddetti contenuti è alimentata per la gran parte da pubblicità che infastidiscono e per lo più danneggiano l’esperienza di navigazione. Medium ha deciso fin dall’inizio di puntare sull’esperienza utente, evitando di riempire il sito di banner flashanti.Scelta coraggiosa, ma apprezzata da tutti i fruitori.Tuttavia, un modello di business basato sulle sole sponsorizzazioni dei contenuti sembra non aver pagato sul breve termine i costi, conseguenza i 50 tagli al personale annunciati.Il problema è annoso ed è da qualche anno che se ne discute, monetizzare meglio i contenuti senza intaccare l’esperienza utente è possibile? Coinvolgere grandi aziende nella sponsorizzazione degli stessi può equivalere sempre ad un’esasperata ricerca del clic e del tempo speso su un determinato sito nonostante il contenuto pubblicato in esso solo per ricavare più introiti dalle pubblicità display?Ad avere la risposta saremmo già in tanti ad aver fatto cassa, nemmeno Ev pare avercela:

So, we are shifting our resources and attention to defining a new model for writers and creators to be rewarded, based on the value they’re creating for people. And toward building a transformational product for curious humans who want to get smarter about the world every day.

It is too soon to say exactly what this will look like. This strategy is more focused but also less proven. It will require time to get it right, as well as some different skills…

E se non ce l’ha lui figuriamoci io. Un’idea possibile potrebbe forse essere quella di prendere esempio dal mondo delle applicazioni mobili. È sotto l’occhio di tutti quanto una versione free piena di banner sia inconcepibile ragione per cui spesso ci troviamo a pagare una versione full o un abbonamento mensile/annuale.Pagare per contenuti di qualità in grado di essere fruiti in maniera semplice, graficamente accattivante spingerebbe i più a pagare per averne sempre di più? Non vi ricorda molto i modelli Spotify & Netflix?Ma l’accesso alle notizie via browser sembra non seguire questo tipo di naturale evoluzione, almeno per il momento. Solo questione di cattive abitudini?E voi sareste disposti a pagare per i vostri contenuti preferiti?

Ventidiciassete

Come di consueto la lista dei post che hanno scandito l’anno appena terminato, meritevoli di una rilettura:

Musicalmente parlando il 2016 è stato un anno di grandi ritorni, soprattutto delle punk rock band californiane come Blink 182, Green Day e Weezer. Oppure i Sum 41 se ve li ricordate ancora. Così come due grandi ritorni sulla scena metal/trash come gli album degli Antrax e Metallica. Tutti album molto interessanti, fedeli alle sonorità d’origine, ma allo stesso tempo molto originali. Estraggo secondo me le due canzoni dell’anno.Cinema e TV. Un’altra categoria di cui parlo spesso qui sul blog. Quest’anno ho mediamente visto un episodio di una serie TV — un film al giorno. Di cui 320 episodi visti e una trentina di film.Il report completo su Trakt.tv che è la piattaforma che utilizzo per tener traccia di quanto visto: https://trakt.tv/users/contz/year/2016Oggi, ultimo giorno dell’anno, questo post arriva a voi programmato qualche giorno fa. Sono a Miami a godermi qualche giorno di sole e mare lontano dalla nebbia della Val Padana.Buona fine e buon principio a tutti.

Black Mirror Stagione 3

Grazie alla rivoluzione tecnologica abbiamo il potere di accanirci e accusare, di formulare giudizi senza conseguenze, ma il potere che la tecnologia ci conferisce comporta anche una responsabilità individuale

A circa metà del sesto episodio di questa nuova stagione di Black Mirror, una delle protagoniste legge questa frase. Me la sono appuntata, un perfetto riassunto di cosa significhi questa serie.Avere a che fare con Black Mirror equivale ad avere una prospettiva sul futuro. Un pessimistico futuro in cui difficilmente siamo in grado di controllare la tecnologia, apparentemente in mano a pochi e in grado di colpire diffusamente la massa.Le tematiche trattate sono strettamente collegate tra loro in questi primi 6 episodi prodotti e rilasciati da Netflix sulla sua piattaforma. Similari a quanto già visto nelle due precedenti, si ha a che fare con la realtà virtuale, i social media, api (sì, gli insetti) e la volontà dei governi di controllarci e attacchi hacker etc.[embed]https://youtu.be/tHfGmnJsItU\[/embed\]Mi trovo però, nonostante consideri questa serie tra le mie preferite, particolarmente d’accordo con alcune tesi di questo articolo

But that depth is not actually all that deep. The things Black Mirror uncovers about the nature of people and technology are pessimistic visions of humankind, and they’re also remarkably absent of nuance. Guess what: Reality shows are dehumanizing. Social media makes people say and do horrible things. Documenting every single moment of our lives has downsides. It’s like stepping through the wardrobe into C.S. Lewis’s Narnia, but instead of a magical land full of fauns and evil queens and talking beavers, there’s just a note that reads, “This is an allegory about Jesus.”

Nella quasi totalità degli episodi costruiti in una realtà distopica, fatta eccezione per San Junipero in cui si evince una speranza di fondo e la voglia di vivere oltre la morte, anche questa terza stagione di Black Mirror dà per scontato un futuro in cui ciò che ora stiamo cercando di trasformare in un aiuto per migliorare le nostre vite, debba forza di cose diventare qualcosa di malato, paranoico, incontrollabile o gestito per monitorare le nostre vite tout court.Ma sta proprio qui il punto di forza della serie. Sfruttare egregiamente le paure e le problematiche di questa iper digitalizzazione di ogni aspetto della quotidianità, mantenendole su un livello umano. Gelosia, cupidigia o il desiderio di vendetta non sono sentimenti nuovi, la tecnologia ci sta solo fornendo gli strumenti per esprimerle in nuove forme e modalità.Sono tanti gli spunti di riflessione al termine di ogni episodio. Domande imprescindibili: accadrà davvero questo tra qualche anno? Saremo più controllati di quanto lo siamo già? Devo dismettere completamente ogni rapporto con la tecnologia?Resta, anche sotto l’attenta cura di Netflix, una produzione pregevole dal concept narrativo di ogni singolo episodio, alla scelta degli attori (tantissimi provenienti da HBO), così come la cura quasi da corto mertraggio più che da serie episodica.E, benché ogni episodio faccia storia a se stante, e quindi apparentemente immune dalla noia, Black Mirror porta con se il rischio di non trovare sufficienti nuovi argomenti da trattare. Di fatti, molti di questi sono rivisitazioni in chiave più grande, oppure semplicemente trattati da un’angolazione diversa.Comunque da non perdere se siete appassionati di tecnologia e di come potrebbe essere in grado di influenzare le nostre vite da qui a pochi anni.

Vita nel weblog

Non passa giorno senza che mi alzi con la voglia di scrivere, scrivere e poi ancora scrivere. Le parole sono sempre chiarissime in testa, filano via, danzano e si imprimono con la consistenza di una crème caramel, ma allo stesso modo sfuggono via a mo' di fumo di sigaretta. Provo a stringerle in un pugno dopo pochi minuti, ma sono già svanite, scomparse. E se provo a ritrovarle nei miei pensieri, ritrovo solo una brutta copia che non mi piace.Forse dovrei fare come quegli scrittori che tengono accanto a loro sempre un pezzo di carta per annotare i pensieri per poi rielaborarli, ampliarli e cavarne fuori qualcosa. Ma scrittore non sono, non è la mia professione, provo a manipolare soltanto parole per condurre chi legge (il più delle volte il mio io cresciuto), nella comprensione del mio io.Bravo chi ci riesce. Ma una cosa l’ho capita in questi 9 anni di blog. A nessuno interessa trovare la rielaborazione di qualcosa che può trovare altrove. No. Ci piace l’originalità e la diversità. La non omologazione incuriosisce e interessa. L’ho sempre riscontrato in quei post nati un po’ così, per caso e che in primis hanno stupito me stesso.Ed è per questo motivo che a parte qualche riflessione strappata da altre trovate online, è praticamente da due mesi che non mi applico a riempire queste pagine, ma nemmeno quelle di altri lidi. Semplicemente voglio smettere di non essere originale e di avere per forza un’opinione su tutto, perché del tutto non sono a conoscenza.Quindi proverò a fare un esercizio differente, trovare prospettive diverse per allontanarmi dalla banalità del “New Post” ad ogni costo per rispettare chissà quale regola della pubblicazione costante. Affinerò la capacità di trovare nuovi filoni di riflessione, ma soprattutto continuerò con l’esercizio iniziato nei primi giorni di Settembre, provando ad applicarlo a tutto.[embed]https://youtu.be/arj7oStGLkU\[/embed\]Che ci riesca sarà un altro paio di maniche, ma poco mi importa. Questa è casa mia, nessuno mi sfratta. C’è chi ha deciso di mollarla. C’è chi di elogiarla.

So solo che questo è uno dei pochi posti con meno mutazioni di questo decennio. Facebook crea un ibrido tra slack e linkedin, la gente si parla attraverso Snapchat in messaggi che si auto distruggeranno. Ho perso il filone YouTuber completamente, non so chi siano, che faccia abbiano e ne sono molto contento. Sto usando Facebook sempre meno e sono tornato a scrivere su una community che frequentavo 13 anni fa.Per la prima volta ho la netta sensazione di iniziare a perdere qualche pezzo e non me ne importa. Conservo quanto mi serve, quanto la mia mente è in grado elaborare per trarne interesse e non perdita di tempo.E quindi? Mi godo le piccole cose. Come andare al cinema con papà come non si faceva da anni ed esercitarmi come un ossesso alla batteria.Costruisco ricordi da tenere stretto, probabilmente la sola cosa importante con il passare del tempo.

INSIDE — La Recensione

La software house danese Playdead è nota ai più per il primo, e unico predecessore di INSIDE, gioco realizzato che risponde al nome di LIMBO. Specifico fin dall’inizio che LIMBO non mi appassionò ai tempi, tanto da abbandonarlo dopo poco, pertanto non sarà una recensione con paragoni e paralleli con il “fratello maggiore”.

INSIDE non ha una storia, non ha una trama, non ha dialoghi, non ha istruzioni e non ha testo. È un puzzle-platform game 2D, dove l’utilizzo delle inquadrature e di un level design magistrale ci fanno abbattere quella sensazione di soffocamento che spesso si ha giocando questo tipo di giochi. Falsa prospettiva al servizio del mezzo videoludico. Per questo lo si considera un 2.5DL’incipit è il ruzzolare di questo bambino ansimante giù per un piccolo burrone. In medias res, nel bel mezzo dell’accaduto, siamo proiettati in mondo distopico dove qualcosa di apparentemente brutto sta succedendo all’umanità, e ci sembra di giocare un ruolo importante all’interno della scacchiera del narrato.

Ciò che afferra e acchiappa in INSIDE sono le ambientazioni, lugubri, disegnate benissimo, dai colori grezzi e dai toni gravi. C’è qualcosa di greve e cupo a regnare sovrano, la pioggia battente, la soffocante e opprimente presenza di giochi di chiari scuri con i quali dovremo imparare a convivere per non essere scoperti e brutalmente eliminati.La morte in INSIDE è cinica e spietata. Un passo falso e la durezza di cani affamati, di sistemi di controllo pronti a spararci una carica di elettroshock, uomini crudeli con una rivoltella sempre sul punto di far fuoco, creature uscite fuori dagli incubi contorti degli sviluppatori.Si, descritto così sembra quasi più un horror che un platform. Ma questo è. INSIDE si riempie di piccole quest e logiche da risolvere senza un attimo di tranquillità, il procedere pertanto è dettato da quanto saremo abili ad evitare di morire.Non è un gioco semplice, ma non difficile. Richiede una buona dose di pensiero laterale, calma e santa pazienza. Perderla sarà normale, prendersi una pausa pure. Camminate, ripensate all’ambientazione circostante e quando troverete il giusto pattern per procedere direte a voi stessi: Come ho fatto a non pensarci prima!E non badate troppo al fatto di morire molteplici volte, ritentate e riprovate in santa pace. I sistemi di salvataggio sono qualcosa di magnificamente progettato. Qualcosa che ogni gioco oggigiorno dovrebbe avere, ovvero salvare costantemente in automatico il gioco in tutti i suoi progressi, facendoci riprendere esattamente dal secondo prima in cui siamo morti, ma cosa ancora più importante poter far accedere ad una timeline per poter giocare qualsiasi punto del gioco sbloccato in precedenza. Divino!

Un gioco della durata di non più di 2 ore, senza un dialogo e una trama, necessita di caratterizzazioni importanti. Le animazioni, la gestione ambientale, l’armonia e il caos sempre in costante antitesi, la fisica responsive nel controllare il nostro personaggio e la sua interazione con quanto lo circonda, rendono INSIDE uno dei giochi più emozionanti e impressionanti a cui abbia mai giocato. Playdead ci ha impiegato 6 anni a completare questo capolavoro di tecnica e sapiente utilizzo espressivo e interattivo del mezzo. E si vede. Il gioco non presenta mai un punto di bug, di glitch, di carenze di frame. Niente. Eccelle in tutto e lo fa con dovizia.Il punto di domanda rimane il messaggio finale, la trama e lo scopo del gioco. Sembra non esserci, nemmeno una volta raggiunta l’impressionante finale non-sense, ma vi ritroverete pad in mano con la bocca spalancata a provare a dare un significato a ciò che è appena accaduto.La ricerca di senso è concetto filosoficamente alto, qualcosa che ancora in troppo pochi hanno il coraggio di ammettere possa appartenere anche ai videogiochi.

INSIDE è qui per far ricredere tutti.

Spritz St Germain

Ai primi caldi Milano cambia pelle. Ai primi caldi ci si ritrova in qualsiasi locale in grado di offrire cocktail decenti ed un buffet sufficientemente accettabile per evitare di passare la serata senza morire di fame e/o a caccia di un kebabbaro aperto.Il must è essere all’aperto.Personalmente non sono tipo da cocktail, preferisco una buona birra bianca artigianale (a proposito consiglio la SU DE DOSS de Il Birrificio di Lambrate anche se è quasi impossibile trovarla), ma in mancanza di quest’ultima è inevitabile discendere nell’inferno delle interminabili liste dei menu dei bar.

A questo si aggiunge il doveroso calcolo della variante di serata, se si guida, se non si guida, in quanto tempo si riesce a smaltire il contenuto liquido ingerito e tante altre belle paturnie per evitare di svenire per coma etilico dopo due bicchieri, oppure di berne 20 prima di sentire qualche giramento di testa.Ad ogni modo, da come si evince l’indecisione è grande in me e spesso mi ritrovo a dire “Due!” subito dopo qualche amico che sapeva già cosa prendere ancora prima di organizzare la serata.Un paio di settimane seduto allo UGO di via Corsico mi sono ritrovato a fare lo stesso (provate a dare un’occhiata alla lista e ditemi se non sareste stati in difficoltà anche voi..), scopro così l’esistenza di una variante molto interessante allo spritz (occhio che quello originale veneto non ha l’aperol, c’è tutta una storia dietro), lo Spritz St Germain (benché soltanto ieri sera ho scoperto realmente il suo nome cercando di farmi capire in un altro bar😁).Ho cercato online la ricetta e cosa contenesse, ognuno ha la sua versione, ma quella che probabilmente si avvicina di più a quella assaggiata è la seguente:5/10 prosecco2/10 di St Germain — Che è un liquore francese ai fiori di sanbuco con una storia molto artigianale alle spalle.3/10 di seltz o sodaGhiaccioC’è chi inserisce anche lime o foglie di menta, ma preferisco di gran lunga questa alternativa “liscia”. Il risultato è più o meno il seguente, ovviamente con gli ingredienti sopra elencati.[embed]https://youtu.be/cqu4XCZ7a1E\[/embed\]Bon, per me è il cocktail pre-cena preferito del momento. È leggero al punto giusto, dolciastro all’inizio, ma secco una volta andato giù. Sufficientemente leggero per proseguire con cose più toste e corpose, ma sempre un ottimo inizio.Finalmente saprò anche io cosa ordinare la prossima volta, ma soprattutto non finirò col solito, violentissimo, invisibile alla fragola.

Quantum Break — La Recensione

Il tempo si è rotto.Il tempo si è rotto e sta per finire.Il tempo si è rotto e sta per finire. Solo Jack Joyce può sistemare le cose.Jack Joyce, appunto, il protagonista di Quantum Break resta suo malgrado invischiato in una storia non troppo trasparente che ha a che fare con suo fratello William, lo scienziato di casa.William rimasto all’università di Riverport, la loro città natale, per concentrare i suoi studi sulla manipolazione del tempo inizia a collaborare con l’amico comune del fratello, Paul Serene CEO della Monarch Solutions, un’azienda specializzata proprio in ricerche scientifiche riguardanti lo spazio/tempo. Ma una scoperta troppo sensazionale è stata fatta dai due, talmente potente da far cedere Jack alle insistenti email di Paul per farlo tornare a Riverport a vedere con i suoi occhi.La storia ha inizio, il punto 0. All’arrivo presso l’università Jack non crede ai propri occhi, una vera e propria macchina del tempo, suo fratello William aveva probabilmente appena fatto la scoperta del secolo. Tuttavia qualcosa non quadra, Paul e William stanno litigando, volano parole grosse e da qui Jack deve prendere il controllo della situazione, o meglio entriamo in gioco noi, perché sa che da lui dipenderà il futuro dell’intero universo.Accade infatti l’impensabile, un incidente al laboratorio causa un danno che ai più sembra irrisolvibile, il tempo si rompe, si frattura e avanza inesorabile verso la sua fine. Questo incidente però garantisce a Jack e Paul il potere di controllarne alcuni aspetti, facendosi largo tra le pieghe dello spazio possono trarre vantaggio nelle situazioni più complicate, ripararsi da proiettili, oppure avanzare quando tutto intorno a loro sembra un fermo immagine.La narrazione di Sam Lake, direttore creativo di Remedy Games, scorre placida e senza intoppi in questa prima fase, anzi ha la magia di catturarci verso lo schermo, approcciare i primi scontri a fuoco attraverso tutorial in grado di farci stare comodi nei panni di Jack Joyce, imparando poco a poco non solo a fare nostra un’arte di combattimento classica, ma anche a diventare maestri nel maneggiare i poteri acquisiti e potenziabili durante tutti i 5 atti del gioco.L’ombra di Max Payne è viva e vivida. Così come quella di Alan Wake. I due giochi creati proprio da Remedy Entertainment hanno continue “cross-reference” durante tutto il proseguimento del gioco, non solo per i bullet time tanto cari a Max, ma vi è tutto un repertorio di riferimenti verso Alan che questo video vi aiuterà a scoprire meglio:[embed]https://youtu.be/ZD6tw41ZHN0\[/embed\]Già realizzare un gameplay dove lo spazio in cui interagiamo diventa quasi metafisico, si spoglia della sua materialità (e vediamo poligoni volare a destra e a manca causando lo spostamento fisico degli oggetti e delle persone), è un’impresa ardua, molto ardua.Eppure a Remedy sembra riuscire benissimo, sebbene le ambientazioni non siano del tutto interattive, al di là dello spostamento di qualche sedia o cassa di legno, nel momento in cui ci troviamo all’interno di una stasi, ovvero quando il tempo si blocca senza danneggiare il nostro avanzamento, tutto appare alterato, incontrollato e caratterizzato da un effetto fast-back-forward che solo dopo un po’ si riesce a comprendere sino in fondo. Inoltre email, registrazioni video e audio, così come documenti ufficiali, sono importantissimi frammenti narrativi disponibili nelle ambientazioni. Tutto materiale, davvero molto molto curato, con cui si può interagire e che darà a chi ne avrà voglia, possibilità di approfondire la storia in tutti i suoi aspetti.Non solo, Quantum Break spezza la tradizione dei videogiochicon una time-line lineare non solo perché poggia la sua narrazione proprio su un’avventura riguardante il Tempo, ma lo fa perché riesce a spezzare i momenti giocati inserendo una serie TV all’interno del gioco.Al termine di ogni atto c’è -infatti- un episodio della durata di una ventina di minuti in grado di arricchire lo storytelling, ed è forse per questo motivo che tutti i principali protagonisti sono attori di prima fascia già visti in importanti produzioni cinematografiche o televisive: Jack Joyce aka Shawn Ashmore- Uomo Ghiaccio in X-Men — William Joyce aka Dominic Monaghan- Merry ne Il Signore degli Anelli o Charlie in Lost — Paul Serene aka Aidan Gillen- conosciuto come Dito Corto ne il Trono di Spade -.Parlando strettamente del gioco, possiamo catalogarlo immediatamente sotto l’etichetta degli sparatutto in terza persona. Telecamera e controlli rispondono molto bene all’appello, un po’ meno le ambientazioni alle quali dobbiamo fare affidamento per raggiungere i ripari.Dimenticate, suggerimento personale, di avere un riparo dietro il quale nascondervi o mettervi al sicuro per un tempo prolungato, l’AI della CPU è programmata in modo da stanarvi ovunque, e risulta quindi essere più vincente lo sfruttare i poteri a disposizione del personaggio:

  • bolle temporali protettive per respingere i proiettili,
  • uno spostamento molto rapido, chiamato schivata temporale, in grado di piegare lo spazio-tempo e colpire i nemici alle spalle, attivando un bullet-time simile a quello già visto in Max Payne,
  • una bolla energetica in grado di congelare i nemici nel momento in cui ci stanno sparando.

Tutte abilità potenziabili allo scorrere dei 5 atti. Ma non saranno l’unica cosa “ modificabile”, per così dire.L’alta rigiocabilità del titolo sta nel modificare anche decisioni chiave all’interno della trama, ci viene chiesto più volte di decidere di imboccare un sentiero narrativo rispetto a un altro. Tale decisione si ripercuote inevitabilmente sulle conseguenze delle quali saremo protagonisti.[embed]https://youtu.be/FxouQDOyz10\[/embed\]Per non rovinare troppo l’intrigante e fitta trama in grado di condurvi senza fiato verso la fine del gioco, ciò che possiamo dirvi è che la Monarch, l’azienda di Paul Serene, ha compreso molto bene l’assioma “il Tempo è potere” e poterlo controllare può farla diventare un’importante risorsa per cambiare il destino dell’umanità.Paul questo lo sa, ha compreso però un’altra importantissima lezione fin da subito, cosa che invece Jack stenta ancora a fare sua, ovvero ciò che è già accaduto non può essere modificato, qualsiasi sforzo si faccia per tornare indietro nel tempo le tracce del destino sono comunque segnate in qualche modo. I due saranno legati a doppio filo fino alla fine, alla costante ricerca di una soluzione per porre rimedio a quanto accaduto all’università, ognuno con il suo modo di voler risolvere la faccenda.Quantum Break è un esperimento. Va in due direzioni precise, quella di voler smontare il videogioco così come oggi lo conosciamo e provare a contaminarlo con altre forme di narrazioneper aumentarne l’interattività nonché l’interesse, l’altra è voler provare a trasformare a livello stilistico gli spara-tutto. Se nel primo caso l’operazione pare essere ampiamente riuscita con una strada tracciata verso la crasi con le serie televisive, nel secondo il tentativo non sembra essere andato completamente a buon fine. Imbracciare un’arma da fuoco in Quantum Break non fa certo rimpiangere vecchi third-person shooter, le dinamiche non sono sembrate innovative e aggiungere un set di super poteri non ha apportato quell’avanzamento forse sperato e ricercato.Tuttavia, Quantum Break resta al momento un titolo da fissare con la puntina sulla lavagna dei giochi di questa generazioneda non perdere per nessun motivo, perché qui c’è la voglia di far vedere al mondo qualcosa di nuovo e mai visto, un esperimento riuscito, e questo non è certo il nostro pesce d’aprile;-)