EA Sports FC 24

Dopo 30 anni ho ancora voglia di calcio virtuale. Anche se non si chiama più FIFA, EA Sports FC 24 è lo stesso di sempre. Una tradizione accogliente dentro la quale provare a staccare la spina per qualche ora e scaricare tutte le tensioni della giornata, salvo uscirne ancora più incazzati di prima. Chi ci gioca da tempo, lo sa bene.

Il gioco presenta tante piccole differenze rispetto ai precedenti. Innanzi tutto l’interfaccia dei menu cambiata e di più facile lettura, mentre in campo finalmente si vede qualcosa di realmente next-gen. Le animazioni sono precise e più naturali, la CPU (soprattutto nelle difficoltà più elevate) prova costantemente a far auto-lanciare i propri attaccanti verso la porta saltando completamente la difesa. Dopo 5 minuti capito l’inganno, trovata la soluzione. Al di là della fisica dei giocatori e della loro presenza in campo, ho trovato ancora fastidiosissimi script in fase di difesa e nello specifico nella fase di ripiegamento. Quando la squadra avversaria cerca di arrivare verso la porta alcuni difensori ancora incespicano, vengono trapassati come fantasmi o semplicemente si fanno da parte senza una precisa ragione. Sospetto vi sia ancora una forte presenza del fantomatico “Momentum” dove se la CPU ha deciso che deve segnare, non ci sono santi, il goal te lo becchi. Devo inoltre sistemare le impostazioni dei passaggi. Di solito tengo tutto in “semi”, ma ancora mi trovo a mandare la palla a chi proprio è fuori dall’azione e mi fa incazzare terribilmente.

Quest’anno ho deciso di acquistare la mia copia su PlayStation invece che su Xbox per due ragioni. Volevo giocare con un paio di amici da anni presenti su questa piattaforma e logicamente hanno deciso di non acquistarlo quest’anno…La seconda perché mi vorrei cimentare nei tornei proprietari PlayStation, vedremo quando apriranno al pubblico.
Tuttavia, mi sono pentito quasi subito di questa scelta. Il DualSense è davvero inadatto a un gioco come EA Sports FC. Forse perché arrivo da tanti anni di automatismi e memoria muscolare applicata su un altro device, ma ogni volta mi sembra il pad si stia per spaccare, si sentono rumori plasticosi e trovo davvero difficile eseguire anche le più semplici mosse. Tant’è ho ordinato un pad più consono. Vediamo se le cose miglioreranno.

Rispetto agli anni passati, dove mi concedevo il lusso di una stagione di carriera allenatore prima di affrontare FUT, quest’anno ho iniziato subito in parallelo sia l’una che l’altra. La carriera mi è parsa sostanzialmente immutata nel suo cuore, peccato. Nel nuovo FUT la vera novità è la presenza delle calciatrici oltre ai volti maschili. Mi sembra un’interessante introduzione che sicuramente darà più opzioni di schieramento e di mercato durante il corso della stagione.

È ancora presto per dare un giudizio complessivo, ma tenuto conto che eFootball ancora non posso considerarlo un vero competitor, e che non c’è altro su questo fronte, anche quest’anno EA Sports FC si appresterà a vendere valangate e far incazzare tanti giocatori mentre subiscono il 3-2 al 94esimo su FUT.

🇺🇸

Questo è un post lungo, parla di come io e Noemi ci stiamo per imbarcare in un’avventura che rivoluzionerà per sempre le nostre vite portandoci a vivere dall’altra parte del mondo. E sì, 🐕 viene con noi.

Paura è la mia compagna di viaggio. Ha scandito spesso i momenti importanti della mia vita. Ci convivo da quando ho memoria. Era lì con me il mio primo giorno di scuola o quando, a 7 anni, ho subito un grave incidente e temevo il peggio. Divorava il mio essere ogni volta varcavo la soglia di ogni ospedale per sistemare i postumi proprio di quell’incidente nei successivi 10 anni. Mi assaliva prima di ogni compito in classe o interrogazione.

Al mio fianco in ogni scelta difficile della vita, dall’amore alle questioni lavorative. Lei sempre lì, a osservare ogni mia mossa. Ma nonostante fosse una presenza poco gradita, la mia compagna di viaggio è sempre stato uno stimolo, un bel calcio nella schiena per farmi buttare nei baratri più bui delle sfide quotidiane che, alla fine, hanno sempre avuto un risvolto positivo.

Ma questo percorso, lungo ormai 35 anni, è finalmente arrivato al capolinea, conscio del fatto che ormai Lei è finalmente sull’uscio di casa della mia vita, cappello in mano e pronta a salutarmi. Quello che rimane è soltanto il suo odore. Come quando una persona si è messa troppo profumo ed esce dalla stanza lasciando dietro di sé una scia, una presenza intangibile degli ambienti appena frequentati. E quell’odore per me equivale alle domande.

Le domande che mi hanno spinto e continuano a spingermi a chiedermi se sono all’altezza di certe situazioni, a prepararmi adeguatamente nel superare le casualità della vita, a provare a capirci qualcosa quando un’opportunità mi si para davanti. A chiedermi se sono abbastanza o se saprò adattarmi al nuovo contesto, qualsiasi esso sia.Paura si è portata via con sé spesso e volentieri la fiducia in me stesso, il farmi rendere conto delle mie capacità, di cosa sono in grado di essere. Immotivatamente e senza ragione. L’ho capito solo da poco tempo.

Queste domande sono talvolta al limite del paranoico e che mettono spesso a dura prova la sanità mentale di Noemi, ma del resto so essere l’unica in grado di saperle gestire e aiutarmi a superarle. Come dicono i Limp Bizkit del resto:

Does anybody really know the secret
Or the combination for this life and where they keep it?

Ma queste stesse domande sono anche quelle che negli anni mi hanno sempre permesso di tenere le orecchie tese, sempre in avido ascolto del mondo circostante. Sempre affamato di approfondire le mie passioni e pronto a salire sul treno che so passare in quel preciso momento, e che talvolta è anche quello giusto.

Quel treno è passato

Una doverosa premessa. Ho sempre avuto una profonda attrazione verso gli Stati Uniti. Senza citare necessariamente Arnold Alois Schwarzenegger e la sua mini serie su Netflix, ma ci sono state volte in cui mi sono sentito molto più spesso americano che italiano. Citofonare a casa Contino senior per avere conferme. E quando ne ho avuto l’occasione in passato, sia per lavoro che per piacere, ho cercato di andarci il più spesso possibile, soprattutto per ritrovarmi.

Non è uno stigma, è semplicemente la cultura di fine anni ’80 e ’90 inoltrati, profondamente imbevuta del liquido amniotico ricco della patina di libertà a stelle e strisce partorito per le nostre menti pre-adolescenziali. La fonte da cui mi sono abbeverato quotidianamente e che ha influenzato (e forse alterato) il mio giudizio, il mio gusto personale e le lenti attraverso le quali assistere allo spettacolo della vita durante il mio processo di crescita e sviluppo. Sono conscio, perfettamente conscio, della follia di alcune devianze culturali e culinarie statunitensi, ma questo non mi ha mai fermato dal vederli come il luogo dove giocarmi, prima o poi, una finestra temporale del mio futuro.

Prendo in prestito le parole di Martino Pietropoli di qualche numero fa inserite nella sua newsletter; esprimono bene il senso di chi come me è cresciuto a cavallo di quei due decenni:

Per la mia generazione l’America era un’esagerazione e un sogno, già dal nome: un paese così gonfio di sé da assumersi l’arbitrio di diventare grande come un continente. Scoprire l’America o Vivere il Sogno Americano sono stati per anni modi per definire una proiezione di futuro possibile e auspicabile, un augurio, un’idea di progresso, libertà, giustizia sociale. Per molti di noi, l’idea di America era monolitica ed era un faro splendente, stagliato su un orizzonte lontano ma visibile.

Gli USA non sono l’America ma sono una declinazione possibile di un continente ben più vasto, eppure per decenni sono stati una sineddoche continentale: il tutto diceva la parte, o la parte si appropriava del tutto.

Quando poi ci vai negli Stati Uniti, il sogno diventa realtà, e diventando tale, smette di essere sogno. Non che si trasformi in una disillusione, affatto. Semplicemente gli USA diventano cioè che sono, e cioè gli USA. Teoria e pratica, illusione e realtà, quelle cose lì.

Ci avevo già pensato e provato ai tempi in cui lavoravo in Microsoft a giocarmi una chance negli States. Feci un paio di colloqui interni per una posizione gaming a Seattle, ma fu inaccessibile agli stranieri solo dopo qualche settimana, per effetto delle prime politiche di Trump. Abbandonai momentaneamente l’idea, senza dannarmi a cercare troppo qualcosa che mi portasse necessariamente via dall’Italia in tempi brevi, ma piuttosto una scelta oculata per crescere nella mia carriera e provare ad entrare nel settore per davvero nel gaming visto che fino ad oggi avevo fallito.

Flash-forward a inizio giugno 2023. Appare una posizione molto interessante nel gruppo Teams aziendale in cui si affrontano tutte le tematiche di gaming. Condivisa con il mio manager (da sempre conscio di quale fosse la mia traiettoria di crescita personale e della quale è stato tra i primi sostenitori) e iniziato il processo di selezione. La posizione è relativa alla comunicazione e ai video games, la mia sintesi preferita. E la sede è quella di Red Bull a Santa Monica, Stato della California.

Verso ovest

Los Angeles e Santa Monica, coincidenza vuole, sono stati i primi luoghi che ho visitato negli Stati Uniti ormai nel lontano 2005. Ai tempi scrivevo per Everyeye.it, non avevo ancora finito l’università e mi apprestavo ad entrare per la prima volta all’ormai defunto E3. Ricordo quel viaggio e l’arrivo in America come un sogno ad occhi aperti. Tutto era enorme, fuori scala, esagerato. Qualcosa che avrei voluto respirare quotidianamente. Successivamente tornai a Santa Monica una seconda volta due anni dopo, nel 2007, in un viaggio itinerante con mio padre dove, fingendomi uno studente in trasferta, acquistai il primissimo iPhone che non sarebbe mai arrivato in Europa. Non so bene per quale ragione proprio quei luoghi, tra tanti altri visitati negli Stati Uniti, mi abbiano sempre attratto così fortemente. Non so spiegarvelo a parole, ma ogni fibra del mio essere ha sempre voluto fare quello che stiamo per fare.

Eppure ho sostenuto un numero ragionevole di colloqui, ho parlato su Teams con diversi colleghi statunitensi grazie ai quali ho compreso come il mercato lì sia abbastanza diverso dal nostro e ai quali ho raccontato quanto di buono stiamo facendo a livello gaming qui in Red Bull Italia. Questo percorso mi ha dato fiducia e convinto del fatto che non sarei stato da meno di nessun altro candidato (bye bye Paura).
Man mano che gli step si susseguivano, ho iniziato a notare ovunque andassi dei chiari segnali. Palesi direi. Tendenzialmente tendo a fidarmi della casualità di queste cose. Cappellini dei Dodgers con LA stampato sopra la visiera ovunque, un cartello appeso in un negozio ad Assisi con scritto “Santa Monica si è trasferito”, un altro su una pensilina del bus con “Ci trovi in Via Los Angeles”, una bandierina della Repubblica della California sventolare nel lido di Pietra Ligure in cui abbiamo affittato due lettini per un weekend, una frazione di Misano da cui sto scrivendo questo post che si chiama proprio Santamonica…e potrei andare avanti a lungo. Inspiegabile o semplicemente ci ho fatto particolare caso rispetto a prima? Probabile sia così, ma mi piace credere ci sia sempre un po’ di magia nelle nostre vite.

Saliamo sul tren…aereo

Sul finire di luglio, in una calda sera d’estate, mentre eravamo a fare un weekend in Umbria ci è arrivata LA notizia. Ero il candidato prescelto. Ci sarebbero stati degli ulteriori passaggi burocratici, ma era sostanzialmente fatta.

Ci siamo abbracciati forte con Noemi. A lei va tutta la mia gratitudine e amore per avermi sempre sostenuto e spinto ad andare avanti, nonostante ora arrivi per lei la prova più difficile di tutte, non solo cambiare tutta la nostra routine ma partire senza nemmeno avere la sicurezza di un posto di lavoro. È uno stress test importante che sono estremamente certo supererà senza problemi. Ce la metteremo tutta per farcela, insieme.

Mamma e papà. Non sarei chi sono oggi senza di loro, senza i sacrifici fatti per questo futuro in cui mi ritrovo. Sono sempre stati i miei primi sostenitori e continuano ad esserlo anche ora, nonostante tutto, nonostante le distanze. So bene non sarà facile, ma troveremo la nostra routine.

Non ultimo Red Bull Italia, i miei colleghi e il luogo di lavoro sono stati e continuano ad essere entrambi pazzeschi. Chi sapeva e chi ha potuto ha sostenuto la mia scelta in ogni modo per far sì che realizzassi questo desiderio. Mi spiace lasciarvi ragazzi, ma per fortuna ci sono ancora tanti progetti da seguire da qui a fine anno grazie ai quali passeremo ancora tanto tempo insieme. Vi aspetto là!

Davvero, non vedo l’ora.Ad oggi non abbiamo ancora uno straccio di documento, se non un contratto firmato e un appuntamento con il console americano fissato per fine novembre. Ma è tutto vero e il mio primo giorno di lavoro dovrebbe essere a inizio gennaio a Santa Monica, Stato della California. Questo dovrebbe lasciarci sufficiente tempo per sistemare tutte le nostre faccende italiane e iniziare ad occuparci di quelle statunitensi una volta là (mi auguro tra fine dicembre e inizio gennaio). Seguiranno doverosi post di aggiornamento.

Forse non c’è niente di speciale nel fare quello che stiamo per fare. In tanti altri prima di noi hanno affrontato lo stesso percorso e stravolto la propria normalità. Non stiamo scappando da nulla, stiamo semplicemente vivendo le nostre vite realizzando per quanto possibile i nostri sogni e forse, a volte, per realizzarli serve uscire dal guscio, prendere dei rischi apprezzando e godendo del percorso fatto e non necessariamente il risultato finale.

Non potevo chiudere il post se non con le parole di Fabio Caressa utilizzate prima della diretta del Red Bull Cliff Diving di inizio luglio di quest’anno. Sono arrivate al momento giusto e mi hanno dato la spinta finale:

Tuffarsi è fiducia
Coraggio
Preparazione
Da oltre 20 metri e nella vita
Il senso di vuoto di una scelta importante
E la necessità di controllare il volo
Per vincere prima o poi devi avere il coraggio di buttarti.
Come se qualcuno ti avesse messo le ali…

Per vincere, prima o poi, devi avere il coraggio di buttarti.

Ce l’abbiamo fatta.

I falsi miti di un blog

Mi piace andare a cercare tramite qualsiasi suggerimento nuovi spazi online dove scoprire la storia personale di ciascuna persona. Nessuno lo riesce a fare meglio di un luogo dove c’è prettamente testo, dove non ci sono strane logiche di filtro a cui sottomettersi per poter apparire. Tendenzialmente chi ha una propria landing page fatta in questo modo, cioè proprio questo, come la mia, dove si scrive e scrive e basta, scrive di sé in modo trasparente e senza filtri.

Oggi ad esempio ho scoperto questo blog. E il post che mi hanno linkato riportava delle osservazioni interessanti su 7 falsi miti legata all’attività di blogging. Quello che personalmente spicca sugli altri vi è questo:

I think the reason I keep writing these blog posts encouraging people to blog is that I love reading people’s personal stories about how they do stuff with computers, and I want more of them. For example, I started using a Mac recently, and I’ve been very annoyed by the lack of tracing tools like strace.

So I would love to read a story about how someone is using tracing tools to debug on their Mac in 2023! I found one from 2016, but I think the situation with system integrity protection has changed since then and the instructions don’t work for me.

That’s just one example, but there are a million other things on computers that I do not know how to do, where I would love to read 1 person’s story of exactly how they did it in 2023.

L’amore per le storie personali e quelle che riesco a trovare online è il mio motore per continuare a condividere le mie. Vorrei farlo più spesso e più in profondità. Conto di farlo tra non molto, tra qualche settimana sarà tutto più chiaro anche per chi sta leggendo queste righe. 🕺🏻

Snellire

Reduce da qualche mese di tira e molla con altre piattaforme, ho deciso di dare una sistemata definitiva al blog.

Tutto quello che segue si è basato su un’attenta analisi dei link di atterraggio, della fruizione una volta in home page, dei comportamenti vari una volta intercettato questo luogo.

  • Ho eliminato la categorizzazione dei post. Non ne vedrete più, comanderà soltanto il titolo. In realtà da backend continuerò a suddividere i post per argomento, in modo che se dovessi linkare una particolare collezione di post, posso ancora farlo. È una decisione sensata, nessuno clicca più su un set di post particolare, ma fruisce dei miei contenuti atterrando direttamente sul singolo post
  • Ho eliminato i like e il tasto share. Anacronistici e inutilizzati. I like richiamavano troppo le dinamiche dei social e questa cosa non mi piaceva troppo. Il tasto share ormai conteneva social che in pochi utilizzano ancora per condividere i miei contenuti
  • Ho eliminato il tasto Commenta. No, non ho eliminato i commenti. Si può continuare a commentare sempre e comunque, soltanto lo si può fare entrando all’interno del post. Pratica, come dicevo qui sopra, tra le più diffuse nel fruire il mio blog
  • Ho eliminato il tasto cerca nel menu in alto. Altra funzionalità usata da nessuno
  • Ho eliminato il preset di icone social fornite dalla piattaforma nel footer. Ora c’è solo testo e link per me importanti

Non so se è un ammodernamento e alleggerimento dell’esperienza. A me pare così. Del resto ai pochi lettori che ancora mi seguono è sufficiente quello che scrivo. Un post alla volta.

Oppenheimer

Ho avuto la fortuna di vedere Oppenheimer in sala Energia in 70mm all’Arcadia di Melzo. Così come il suo regista Christopher Nolan l’ha pensato e girato. Senza menate digitali e con tutta la bellezza della grana grezza della pellicola. Da quella grana emerge in tutta la sua potenza non tanto la bomba atomica in sé, quanto la sua portata distruttrice, il brivido di coscienza di avere a disposizione un “fuoco” sacro in grado di porre fine alla vita sulla Terra, ma forse ancora di più il fatto di aver valicato un punto di non ritorno.

Come avrete letto, tra le critiche più feroci alla pellicola si dice che nel film non succede nulla di concreto. Non è un film sulla guerra, non è un colossal, non si vedono le città giapponesi bombardate, non è un blockbuster. Forse è anche un po’ vero. Si parla, continuamente. Ma è attraverso il dialogo e alla magistrale interpretazione di Cillian Murphy, al suo volto e alla sua nemesi filmica Robert Downey Jr., che si esce dal cinema frastornati e pensando di aver visto più generi all’interno dello stesso film. Esterrefatto.

Ci ho messo due giorni a digerirlo difatti, a fare mie tutte le tematiche sottese ma evidentissime che Oppenheimer porta con sé. In primis il dramma del fisico, combattuto tra la sua convinzione di essere in missione per salvare il mondo e la sua crescente consapevolezza delle conseguenze dell'arma che ha creato. La potente e necessaria riflessione sulla natura della guerra, le sue armi e la responsabilità umana dietro alle stesse azioni. La suspence e la minaccia costante fanno passare le 3 ore di pellicola sempre con l’attesa che qualcosa stia per succedere. E poi la bomba esplode e a quel punto non si torna più indietro.

Menzione particolare voglio farla a Ludwig Göransson. Sembrava di stare dentro il Cavaliere Oscuro, tanto che ho scambiato alcuni brani con lo stile di Hans Zimmer. Il lavoro fatto dal compositore svedese è impressionante, un bagno di sensazioni accuratamente preparato per accompagnare la visione. Montagne russe d’emozione.

Spetta ancora alle generazioni future comprendere se le scoperte avvenute nella prima metà del ‘900 saranno quelle che polverizzeranno l’umanità o la salveranno dal proprio declino. Merita una seconda visione, spero sempre nella stessa sala.

★★★★★

People & Blogs

This is the 1st edition of People and Blogs, the series where I ask interesting people to talk about themselves and their blogs. Today we have Manton Reece and his blog, manton.org. Manton is the creator of the micro.blog platform and JSON Feed, an alternative format to the more traditional RSS and Atom.

To follow this series subscribe to the newsletter. A new interview will land in your inbox every Friday. Not a fan of newsletters? No problem! You can read the interviews here on the blog or you can subscribe to the RSS feed.

Manuel inizia una serie di post, People and Blogs, molto interessante fatta di interviste a blogger più o meno famosi che fanno parte della sua dieta mediatica. Il primo ad essere intervistato è Manton Reece, il papà di Micro.blog.

Vi consiglio di seguirla. Ogni venerdì ce n’è una e magari ci finirò dentro anche io molto presto. 😏

Il mito del secondo cervello, pt. 2

In short: it is probably a mistake, in the end, to ask software to improve our thinking. Even if you can rescue your attention from the acid bath of the internet; even if you can gather the most interesting data and observations into the app of your choosing; even if you revisit that data from time to time —this will not be enough. It might not even be worth trying.

The reason, sadly, is that thinking takes place in your brain. And thinking is an active pursuit —one that often happens when you are spending long stretches of time staring into space, then writing a bit, and then staring into space a bit more. It’s here here that the connections are made and the insights are formed. And it is a process that stubbornly resists automation.

Anche chi ne ha fatto uso estensivo, un giornalista, arriva alle mie stesse conclusioni.

PlayStation Portal

Include le caratteristiche principali del controller wireless DualSense, tra cui grilletti adattivi e feedback aptico*. Il brillante schermo LCD da 8 pollici è in grado di offrire una risoluzione 1080p a 60 fps, per l’esperienza visiva ad alta definizione che ci si aspetta dai giochi di elevata qualità creati da sviluppatori di prim’ordine.

PlayStation Portal è il dispositivo perfetto per i gamer che potrebbero avere bisogno di condividere il TV in salotto o semplicemente di giocare ai giochi per PS5 in un’altra stanza. PlayStation Portal si connette in remoto alla PS5 tramite Wi-Fi**, così potrai passare rapidamente dalla PS5 a PlayStation Portal.

Finalmente si hanno maggiori informazioni su PlayStation Portal, il primo dispositivo di riproduzione remota per PlayStation 5. A livello hardware la notizia per me più interessante data durante la Summer Games Fest dello scorso giugno e spiegata meglio l’altro ieri da Sony a margine della gamescom.

PlayStation Portal remote player, il primo dispositivo di riproduzione remota dedicato di PlayStation

Il device si presenta come uno schermo incastonato tra due metà di un controller DualSense. A un prezzo di 219 euro, permette di giocare a qualsiasi gioco installato sulla propria PlayStation 5 (tranne quelli VR) attraverso la funzionalità di riproduzione remota. PlayStation Portal da quanto capisco funziona sia se utilizzato sulla WiFi della medesima rete locale, ma anche se ci dovesse trovare dall’altra parte del mondo con la propria PlayStation 5 adeguatamente connessa a casa propria.

La cosa più strana di tutte, visto che il device è capace di streammare, appunto, da remoto è l’assenza del supporto ai giochi riprodotti tramite lo streaming nel cloud di PlayStation Plus Premium.

Una mancanza piuttosto importante. Tant’è, questo tipo di utilizzo parla a videogiocatori come me. Nonostante l’esperienza da salotto rimanga quella più appagante, a volte mi trovo a giocare dal letto o dall’hotel in cui mi trovo con questo tipo di set-up ed avere un device nativo in grado di assolvere questo compito penso mi alleggerirebbe un pochettino il carico di trasporto.

Il prezzo sembra sufficientemente competitivo, mi domando quanto si diffonderà e quanti acquirenti lo confonderanno con una console portatile invece che un mero riproduttore di contenuti attraverso internet.

Golden hour

Isuledda, o più erroneamente chiamata Isola dei Gabbiani, è la culla di Porto Pollo. Questa lingua di sabbia nel nord della Sardegna che termina con istmo è uno dei miei posti del cuore e ben presto lo è diventato anche per Noemi.

Qui dove il vento sferza senza sosta, c’è la vita sospesa in cui tutto è possibile.

A cosa ti serve il tuo smartwatch?

È una domanda genuina, piena di curiosità. Mi piacerebbe sapere tra chi utilizza smart watch se si è mai posto questa domanda. Se in effetti tracciare il proprio percorso di fitness, di battito cardiaco o qualsiasi altra cosa è mai servito realmente a qualcosa, ma soprattutto se ha inciso nel proprio cambio di comportamento.

Da oltre un anno ho abbandonato il mio Apple Watch. Da oltre un anno non ne ho mai sentito la mancanza. Anzi, a dire il vero ho smesso completamente di indossare orologi. E dire che una volta potevo annoverarli tra le mie passioni più grandi. Eppure ho smesso di badare troppo al tempo, funzione principale di un orologio ovviamente, ma soprattutto di avere l’affanno di tracciare tutta la mia vita. Non c’è un vero motivo per farlo, quindi perché dover sprecare tempo per farlo?

Lo spunto di questo post arriva da uno letto ieri:

I need an alarm. But here’s the thing: I know how I slept because I’m either rested, or I am not.

So, do I really need something to tell me how to feel?

Non è una critica, non è un monito per convincere gli indossatori di smart watch a doverli abbandonare da qualche parte. È solo interesse per comprendere se realmente vi è utile e vi siete posti la domanda corretta prima di acquistarne uno invece di voler apparire alla moda. La trappola in cui ero caduto io e da cui per fortuna sono uscito.