Superunknown

Il 1994 sembra essere un anno benedetto dal Signore della musica rock. Quest'anno compiono 30 anni tanti grandissimi album. Alcuni:

  • Definitely Maybe degli Oasis
  • Vitalogy dei Pearl Jam
  • Dookie dei Green Day
  • L'MTV Unplugged in New York dei Nirvana

Pian piano me li sto riascoltando tutti, con molta calma e prestando attenzione sia ai testi, sia al momento storico in cui sono stati scritti. Tra tutti voglio citare Superunknown dei Soundgarden che, tra tutti, forse è quello che conosco meno. Una quintessenza di anni '90 che a distanza di 3 decadi rappresenta ancora alla perfezione ciò che un disco hard rock dovrebbe essere.

Ricco di incertezze e di malessere, proprio come gli anni '90 hanno saputo essere, l'album dimostra una portata artistica molto più ampia di quelle che molte band riescono a raggiungere in un'intera carriera.
Il disco sembra non essere invecchiato di 1 giorno e la voce di Cornell è ancora oggi l'emblema del rock.

Capolavoro.

Cos'è Ai Pin?

Qualche mese fa avrete sicuramente visto da qualche parte il video di presentazione di Ai Pin. Un wearable device basato quasi interamente sulla combinazione di interazione vocale e intelligenza artificiale.

L’azienda che la produce si chiama humane al cui vertice ci sono Imran Chaudhri and Bethany Bongiorno, moglie e marito ed entrambi provenienti da Apple.

Il device è minuscolo, si “appende” al petto come se fosse una spilla e attraverso un abbonamento di 24 dollari al mese promette cose strabilianti.

L’oggetto è sprovvisto di interfacce se non appunto per la voce e una proiezione sul palmo della propria mano con cui interagire per alcune funzionalità.

E sebbene sulla carta si pone come il futuro sostituto degli smartphone, prova su strada The Verge lo considera niente più che alla stregua di un gadget divertente. Cosa che ho sospettato fin dall’inizio.

Ieri humane ha rilasciato un nuovo video un paio di giorni fa a dimostrazione delle funzionalità basilari e più complesse dell’oggetto.

Le novità più interessanti si mostrano durante la seconda metà del video con la funzionalità Vision. Capace di leggere oggetti, comporre una scheda calorica degli alimenti che assumiamo durante la giornata, consigliare sull’utilizzo di un software o realizzare documenti che poi si troveranno su un’interfaccia software chiamata .Center che vive e vegeta sul sistema operativo proprietario cloud CosmOS.

Aspetta un attimo. Un’interfaccia software? Quindi visibile agli occhi? Sì.

Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che, nonostante le premesse siano fantastiche e la volontà sia quanto più possibile quella di copiare ciò che possiamo vedere nel film Her, ancora oggi è imprescindibile avere a che fare con uno schermo, ma sopratutto con uno smartphone.

La trappola della creator economy

Tra i privilegi di avere uno spazio personale indipendente da qualsiasi piattaforma c’è anche quello di potersi concedere il tempo di unire i puntini di concetti significativi e provare a rifletterci su senza badare troppo alla FOMO.

Guardavo qualche giorno fa con una certa preoccupazione il video di Mikeshowsha su come gli ultimi cambiamenti all’algoritmo di YouTube fanno sì che la situazione stia diventando parecchio insostenibile per molti creator.

Ora, soprattutto per chi fa contenuti come lui, e quindi video di breve/media durata destinati anche a guadagnare valore nel tempo, si trova davanti davvero pochissime alternative per portare avanti il proprio lavoro e mantenere il successo che ha conquistato.

Certo, è anche grazie proprio a YouTube se alcuni creator sono arrivati dove sono arrivati. Proprio grazie a quell’algoritmo che oggi, vuoi per abbondanza o per questioni di advertising, sta iniziando a penalizzarli e non poco.

L’argomento si estende a molte delle piattaforme terze che promettono di poter monetizzare i propri contenuti a fronte di una strategia di pubblicazione talvolta rasente al burnout o il ridicolo. Instagram non ne è immune. X nemmeno. TikTok penso sia uguale.

È forse anche per questo motivo che mi sono per ora rintanato su Threads e sto utilizzando soltanto quello da qualche mese. Resta ancora immune alle logiche di monetizzazione e per il momento, nonostante ci sia di mezzo l’algoritmo di Meta, gioca a metà campo tra quello che è accaduto in passato a Facebook e, appunto, Instagram e delle logiche di Internet aperta appartenenti al Fediverso.

L’alternativa a tutto questo per i creator c’è ed esiste. E la si può raggiungere creando qualcosa di personale e unico. Non aderente a logiche di piattaforme miliardarie, ma solo e soltanto sulla bontà del proprio lavoro. Quale sarebbe? Procedere nell’adottare soluzioni indipendenti, talvolta costruirne anche alcune da zero se necessario. E sull’argomento ho trovato molto interessante il post di Joan Westenberg:

Building your own platform is undoubtedly harder than relying on someone else's. It requires a greater investment of time, money, and effort. But the rewards are also greater. When you own your platform, you own your audience and your revenue streams. You have the ability to build a sustainable, long-term business that is not at the mercy of someone else's decisions.

Building your own platform is not a guarantee of success. It demands hard work, creativity, and a deep understanding of your audience and your niche, perhaps moreso than the creator economy. More than any other path. But it offers true independence and control over your creative destiny.

Difficile. Nessuna garanzia di successo. Terribilmente complicato. Sì, è vero. Ma sono certo che se il lavoro proposto è valido c’è modo di farsi trovare e farsi pagare adeguatamente (i blog citati nel post precedente ne sono un esempio, così come tante newsletter indipendenti). Come? Non eliminando la propria presenza sui quei canali social che al momento sembrano impazziti, ma anzi iniziare a sfruttarli per condividere i propri contenuti proprietari in modo intelligente:

But it's time to start treating them like the tools they are, not the foundation of your career.

Use social media strategically. Post teasers, behind-the-scenes snippets, engaging questions that drive your followers back to your own platform for the full monty. Make social media work for you, not the other way around.

L’IndieWeb la riassume come strategia POSSE.
Ora, io non ho la sfera di cristallo. Non sono un creator, ma mi limito a studiare la storia dei media e il potere che esercita sulla società. Mi è chiara una cosa però, la competizione sarà sempre maggiore, ci saranno sempre più creator e la possibilità per il consumatore di scoprire e avvicinarsi anche solo a una minima percentuale di essi sarà sempre più complesso e difficile.

Sbaglierò, ma resto convinto che provare a trovare una soluzione diversa e controllabile sia davvero la chiave di volta per assicurarsi la sopravvivenza quando alcuni di questi spazi collasseranno lasciando in tanti a bocca asciutta.

Brooklyn

Ho passato l'ultima settimana a Brooklyn per il Red Bull Kumite. Con questa è la quinta volta a NY e mai come prima mi sono sentito in una città che non vorrei abitare. Mi ha ricordato Milano moltiplicata non so per quante volte. Ho fatto un paio di avanti-indietro da Manhattan e non importava l'orario, il traffico non perdona. Anche la sera tardi.
Mi ha sorpreso ritornare in una città così densamente popolata soprattutto per il rumore di fondo che è in grado di generare. Anche vista da Brooklyn (e nello specifico da questo punto) Manhattan emanava una frequenza di fondo costante e a tratti disturbante.

Il giorno prima di partire però sbirciavo il canale YouTube di Bon Appétit e mi sono imbattuto in questo video sul dietro le quinte della migliore pizzeria di Brooklyn: L'industrie Pizzeria.
Di proprietà di un ragazzo italiano, devo dire al momento la migliore pizza mangiata in America. Se siete di strada andateci perché merita.

Ora sono per 4 giorni ad Austin per dei meeting interni. Il panorama è decisamente diverso e più verde qui.

La pasta negli Stati Uniti

Noemi ha un’allergia da accumulo al nichel. Ciò significa che ogniqualvolta facciamo la spesa o andiamo al ristorante dobbiamo fare attenzione agli ingredienti dei prodotti che stiamo per acquistare o dei piatti che stiamo per ordinare.

Negli States abbiamo notato liste chilometriche di ingredienti sulle etichette dei prodotti, ma una su tutte ci colpisce ogni volta.

Quella della pasta.

Non che Valentina non ci avesse avvisati, ma le marche di pasta italiane più famose che si trovano sugli scaffali dei supermercati qui hanno il 90% delle volte un’etichetta del genere:

La Food & Drug Administration statunitense impone che le vitamine e i minerali persi nel processo di macinazione debbano essere aggiunti nuovamente alla pasta prima di essere messa in commercio. L'attuale arricchimento comprende: niacina (vitamina B3), ferro, tiamina mononitrato (vitamina B3), riboflavina (vitamina B2) e acido folico.

Io non sono esperto di chimica, nel questo blog vuole diventarlo. Ma vi lascio questo semplice link per approfondire il perché e il percome di come l’assunzione di queste vitamine e altre sostanze in maniera artificiale non sia la strada migliore per compensare le carenze nel nostro fisico.

Ciò che posso dirvi io è l’impatto sul gusto. La pasta sembra più appiccicosa e oleosa alla vista, nonché con un colore più vivido rispetto alla pasta che siamo abituati ad acquistare in Italia.

Per fortuna esiste anche qui. Bisogna aguzzare un po’ la vista e cercare tra gli scaffali la dicitura Organic.

C’è un’altra pratica, per fortuna sempre meno diffusa nella pasta, ma comunque stabilmente presente negli altri prodotti da forno, che è letteralmente il processo di sbiancamento della farina.
Infatti è molto diffuso trovare la dicitura “bleached flavor” o “bleached pasta” il che come si può immaginare non è il massimo per la salute. Procedura bandita in Europa, consiste nello specifico per la pasta nell’alterazione del colore e della consistenza, in genere per ottenere un aspetto più bianco e luminoso. Il processo di sbiancatura prevede l'utilizzo di agenti chimici o additivi per rimuovere impurità e pigmenti dalla pasta.

Durante la sbiancatura la pasta viene trattata con sostanze come biossido di cloro, perossido di benzoile o altri agenti ossidanti. Questi agenti aiutano a scomporre le proteine ​​e i carboidrati presenti nella pasta, ottenendo una consistenza più raffinata e uniforme.

Insomma un trattamento che sulla carta può sembrare una meraviglia, in realtà vi state ingerendo un sacco di porcate chimiche.

Come dicevo, per fortuna questa pratica sembra essere sempre meno diffusa nella pasta perché durante gli ultimi giri al supermercato non ho praticamente trovato pasta bleached, al momento ci stiamo trovando bene con la linea 365 di Whole Foods che è buona e non ha praticamente nessuna degli ingredienti o non subisce nessuno dei processi elencati in questo post.

Ed è pure prodotta in Italia. Nel frattempo continua la ricerca anche per provare altri brand.

1$ al mese

Negli ultimi giorni ho pensato più volte al mio ultimo post e alle parole utilizzate da altri blogger (si può ancora dire? Si offende qualcuno?) nei loro per descrivere implicitamente lo status attuale della blogosfera italiana. Tendente alla estinzione per lo più.

Ma se guardo dove vivo ora, negli Stati Uniti sta tornando di moda quello che da qualche anno è già in voga grazie alle newsletter. La iper frammentazione e specializzazione di certi argomenti e la garanzia di un pubblico molto vasto, grazie soprattutto all’inglese, sta vedendo alcuni blog abbastanza importanti chiudersi dietro un paywall. O almeno parte dei loro contenuti.

Scelta comprensibile dato il loro contesto, ma che non ho mai personalmente condiviso. Credo molto di più in un modello di supporto libero, dove i contenuti siano sempre e comunque accessibili. Questo blog ha sempre seguito e sempre seguirà questo principio.

Ho deciso però di ravvivare il mio profilo ko-fi e nel farlo ho scoperto che anche altri hanno abbracciato 1$ al mese per supportare ciò che fanno. E nella maggioranza dei casi è solo una cifra simbolica per il mantenimento del dominio e lo spazio sul server che ospita il loro blog.

Qui vi lascio il mio One a Month Club. Il ricavato sarà destinato al rinnovo del dominio (14.99$/anno) e al pagamento delle spese del server (3.85€/mese). Da parte mia cercherò quanto più possibile di scrivere qui rispetto che altrove, portare contenuti diversi su gaming, tecnologia e comunicazione, ma visto che sto facendo tante nuove esperienze anche e soprattutto sugli Stati Uniti.

Se vi va, grazie già da ora.

Ne è valsa la pena

Questa settimana è venuta a mancare una persona importante per la blogosfera italiana e non solo. Giuseppe Granieri l’ho incontrato a qualche barcamp, non abbiamo mai scambiato una chiacchiera più profonda di un saluto, ma ci leggevamo reciprocamente. Ho letto i suoi libri in cui talvolta ho trovato la voglia di buttare giù due righe o anche solo evitare di chiudere del tutto questo posto.

Nel feed mi è apparso un post di Sergio. Ricorda Giuseppe tracciando un affresco malinconico di ciò che è stata quella fiammata chiamata blogosfera attorno all’inizio degli anni ’10 in Italia e che, con mio grande rammarico, oggi non c’è fondamentalmente più.

È inutile elencarne qui tutti i motivi. Ci si può arrivare facilmente passando in rassegna ciò che è arrivato sul mercato negli anni subito successivi e cosa ne è conseguito. Ma quella scintilla, seppur breve e forse insignificante alla stragrande maggioranza della popolazione italiana, ha contato e conta ancora qualcosa.

Ne è valsa eccome la pena. Ha forgiato la maggior parte di noi, ha forgiato una generazione, ha forgiato un’ideologia, molto più umanistica che tecnologica, che certo ora andrebbe evoluta e messa a punto, ma che avrebbe potuto contribuire a correggere le esasperazioni dell’unica idea occidentale di società ancora in circolazione, con l’eccezione forse dei movimenti neo-ambientalisti, ovvero la società dei processi di massa e del consumismo. Per di più nel suo momento più pericoloso: il declino. Non ne abbiamo giovato? Siamo rimasti precari irrisolti senza certezza del futuro? Può essere, ma è il destino che a un certo punto ci siamo scelti, e io anche nei giorni di maggior sconforto non riesco proprio a rinnegarlo.

La forza di quelle connessioni, quelle nate dai cross-link e dai barcamp, per me hanno sempre avuto maggior presa qui, attraverso questo blog. Non ho instaurato nessun rapporto forte e duraturo in nessuno dei social network apparso dal nulla subito dopo. Non mi è rimasto niente delle centinaia di foto o testi pubblicate su piattaforme che ho contribuito ad alimentare con i miei dati. Tutto è sempre e solo partito da qui. Da un blog nato nel 2007 per documentare in viaggio in Canada.

Non sono invece particolarmente d’accordo con la risposta di Massimo:

Eravamo ingenui e in buona fede dentro un enorme errore di prospettiva. Ecco forse questo mi allontana un po’ dalla ricostruzione di quei tempi scritta da Sergio: quella roba lì era la nicchia della nicchia, i nostri blog, gli aggregatori, i feed rss attraverso i quali restavamo in contatto, non influenzava altro se non noi stessi (oltre che i quattro gonzi dei media che sono sempre alla ricerca del nuovo fenomeno da raccontare) mentre gli strumenti di rete sociale che sono venuti dopo (in Italia quasi solo FB) quelli sì hanno modificato le prassi sociali dei cittadini. Certo a quel punto era tardi, la piattaforma perseguiva scopi totalmente differenti, gli utenti affluivano a milioni privi di qualsiasi cultura digitale, il disegno sociale di una società migliore si era rapidamente trasformato in uno scarabocchio che riproduceva la società come era allora. Ma era uno scarabocchio grande, per questo contava, per questo lo si vedeva perfino da Marte.

È vero ci parlavamo addosso, è vero probabilmente solo un infinitesima parte di chi stava online in Italia ai tempi leggeva un blog, ma ai tempi c’era solo quello. C’erano i blog, FriendFee, Facebook e qualche cosina di Twitter. Non c’era altro. In ogni slide di marketing plan durante quegli anni figurava il volto di un blogger non di un influencer, non di un creator.

E per me tanti di quelli che leggevo ai tempi (e che a volte hanno continuato altrove o semplicemente hanno perduto la verve) sono stati un’enorme fonte di ispirazione. Mi hanno insegnato cose che non avrei imparato altrimenti. A volte mi hanno aperto porte inaccessibili.

È vero. Quel tempo non c’è più. Non è più il tempo di una Rete priva di social media. Non torniamo più indietro dall’era dell’ego. Ma quella corrente positiva di provare a connettere l’idee attraverso una pagina web esiste e perdura ancora oggi. È infinitesimale qui, è una professione per tanti negli Stati Uniti e forse nel resto del mondo, ma c’è di buono che queste pagine personali che abbiamo imparato a chiamare weblog saranno dure a morire.

Update: Sono contento che anche per Enrico valga lo stesso:

Perché, per fortuna, c’è chi ancora è interessato alle idee degli altri, per davvero, senza i filtri che una manciata di società tech hanno deciso di imporci e che abbiamo accettato senza fiatare trasformando noi stessi in qualcosa che non riconosciamo più.

Quindi sì, è valso la pena. E quel movimento sotterraneo, fatto di “puntini” come dice Massimo, prosegue, ha preso mille direzioni, si è articolato e da semplice è diventato complesso, specializzato, si è sprovincializzato, ecc. È talmente grande che è difficile fotografarlo. Tutti noi che abbiamo continuato, chi per mestiere, chi per piacere, a guardare le evoluzioni dello scenario dei media abbiamo dovuto, a un certo punto specializzarci, restringere il focus, scegliere di occuparci di un pezzettino di quella “cosa” che era diventata sempre più grossa e multiforme.

Back Online

È stata una decisione a lungo rimandata quella di spostare il blog fuori dall’ecosistema Squarespace. Per chi mi ha seguito nel tempo sa bene che ho provato a cambiare piattaforma più e più volte per poi ritrovarmi sempre da dove tutto è cominciato.

Un paio di settimane fa più o meno è successo che il backend di Squarespace mi proponesse di aggiornare il software dalla versione 7.0 alla 7.1. Di solito gli aggiornamenti di un sistema software as a service sono migliorativi e difficilmente impattano il lavoro pregresso. E, se lo facessero, lascerebbero quantomeno l’opportunità di tornare indietro...

Ho premuto update senza leggere che una volta aggiornato non avrei potuto tornare indietro. Ho premuto update nella speranza che mi venissero proposte delle nuove opzioni migliorative per il mio blog, mentre è successo un bel patatrac.

Sostanzialmente tutta (o quasi) la grafica del blog è andata a farsi benedire.

Io non sono un programmatore web. Non lo faccio di professione e tutto quello che avete visto nel corso degli anni a livello di “grafica” l’ho imparato per conto mio cesellando il CSS del sito facendo dei semplici A/B test.

Questa volta però mi sono trovato di fronte a una complessità relativamente eccessiva e ho deciso di abbandonare un’ennesima impresa che non mi avrebbe portato poi troppo lontano.

Ho inizialmente vagliato tutte le opzioni disponibili. Ri-spostarmi all’interno di un altro walled-garden (Wordpress.com , Medium) o provare a guardare opzioni web-hosted ma sostanzialmente libere da qualsiasi possibile censura (blot, micro.blog, bear blog etc.).

Fino a rendermi conto di due cose. L’export generato da Squarespace non stava funzionando per nessuna di queste opzioni, sarei impazzito con la rimappatura di tutti i link, per non parlare delle immagini.

Ho deciso di scrivere a Manuel. Ho deciso di chiedere aiuto proprio come lui scriveva nel suo blog. Ho deciso di chiedere aiuto a Manuel perché adoro lo stile minimale del suo blog (anzi vi consiglio di supportare il suo lavoro), perché abbiamo imparato a conoscerci in questi mesi passati attraverso lo scambio reciproco di email, condividendo la stessa idea di internet, e perché genuinamente so che facendolo per lavoro mi avrebbe potuto quantomeno indirizzare verso una soluzione efficace.

È stato molto più di questo. Manuel ha accudito il mio blog come se fosse il suo. Ha assecondato le mie follie sulle spaziature e simmetrie e praticamente ha riportato online la versione migliorata e potenziata della mia precedente casa.

Ora il blog ha un suo server dedicato e funziona grazie a Kirby. So praticamente poco o nulla di quanto ha fatto Manuel nel corso dei giorni passati, ma mi sono reso conto praticamente fin da subito della malleabilità di Kirby e di quanto un sito possa essere adattato in base alle proprie esigenze. Nello specifico le mie :)

Il font scelto da Manuel dovrebbe essere più leggibile, così come la parte di blockquote e i link in generale. Adoro gli effetti colorati sugli elenchi puntati e come si comporta il mouse all’hover di un link giocando con la palette del logo. A proposito di novità:

  • Il vecchio RSS feed non è cambiato, ma da oggi esiste anche un nuovo e più pratico indirizzo a cui abbonarsi, ovvero: https://gwtf.it/feed
  • I link ai vecchi post sono al 90% tutti attivi e funzionanti. Devo ancora sistemare qualche vecchio post, ma se arrivate da qualche social o link di condivisione dovreste atterrare correttamente nei vecchi post
  • Da ora in poi ho abbandonato la URL composta da anno, mese, giorno, a favore solo del titolo del post

Ho disinstallato l’app di Squarespace dal mio telefono, dall’iPad e sganciato tutto quello che gli apparteneva dal backend. Ora ho installato ia writer ovunque. Dovrò familiarizzare un pochettino con Markdown e finire di sistemare qualche vecchio post. Ma a parte questo…

Bentrovati!

Scrivimi. No, davvero.

Nell’ultimo anno i commenti al blog sono diminuiti drasticamente. Avevo già operato un taglia e cuci qualche mese fa snellendo l’home page. Oggi, ispirato anche dal post di Manuel, ho deciso di chiudere definitivamente i commenti del blog.

Motivo? Molto semplice. In 4 mesi ne ho avuti 5. Ma in 4 mesi ho scambiato molte più email con sconosciuti che, grazie al blog, mi hanno raggiunto.

Perciò, chiudendo i commenti il blog dovrebbe caricarsi ancora più rapidamente in primis. In secondo luogo ora trovate nel menu in alto bello in maiuscolo la parola SCRIVIMI. Il form che c’è all’interno non è nient’altro un’interfaccia con la mia casella di posta personale. Qualsiasi cosa scriviate lì dentro finisce nella mia gmail privata e da lì posso interagire con voi senza problemi.

Ci tengo, mi fa molto piacere e grazie ad essa ho conosciuto tante persone interessanti. Soprattutto blogger stranieri.

Quindi la mia email è sempre aperta e disponibile. Chissà che finalmente ci si possa conoscere meglio!

Internet ha già abbastanza falsità

The internet has enough fakeness. It has enough hot takes, perfect websites, and thoughts on the latest political/news stories. Write about you, write about the person behind the screen who wants to be seen and heard. Write about what makes you tick and what makes you happy. That's the blog I want to read and that's the type of blogs we need if we want to make a better internet. We don't need another news blog, we need something folks can relate to and something you can show your not so tech savvy friends that makes them think, "Wow, the internet can be something more than just Facebook, TikTok, or Twitter. Maybe I should stop scrolling for a second?"

Oggi ho scoperto un nuovo blog. E già per me è una notizia positiva per la giornata. Se poi si tratta di relazioni digitali e come esse possano essere veicolate attraverso un blog personale ancora meglio.

Nell’incentivare le persone ad avere un blog personale, Brandon centra secondo me un punto importante dell’esposizione del sé in Rete:

"What if people don't like this? What if people don't like me?" But what is the alternative? Make a fancy blog, that looks perfect and discusses things I'm not truly passionate about? To create a facade that I am someone that I'm not. How is that any different than social media?

Scrivere online e farlo tutti i giorni, con costanza, scambiandolo quasi per un dovere a volte costa fatica e non sempre è facile, come scrive un’altro blogger, Greg:

To be honest, I am only here because it's a habit, and I like playing around with my website. It's fine to write about your life and other such interests. My favourite blogs to follow do exactly that, but it's absolutely understandable if you don't want to do that. Blogging isn't easy, and no amount of rose-tinting will change that, but that doesn't mean you shouldn't try.

Questo però non dovrebbe fermarvi dal farlo. Da provare a riappropriarvi di uno spazio vostro, senza algoritmi, dove lasciare una traccia, qualsiasi essa sia, di voi stessi. Fatevi conoscere, condividete le vostre passioni, ansie, gioie, paure, fallimenti.

C’è sicuramente qualcun altro che ha vissuto lo stesso, si potrà riconoscere in voi e forse sentirsi meno solo.