La pasta negli Stati Uniti

Noemi ha un’allergia da accumulo al nichel. Ciò significa che ogniqualvolta facciamo la spesa o andiamo al ristorante dobbiamo fare attenzione agli ingredienti dei prodotti che stiamo per acquistare o dei piatti che stiamo per ordinare.

Negli States abbiamo notato liste chilometriche di ingredienti sulle etichette dei prodotti, ma una su tutte ci colpisce ogni volta.

Quella della pasta.

Non che Valentina non ci avesse avvisati, ma le marche di pasta italiane più famose che si trovano sugli scaffali dei supermercati qui hanno il 90% delle volte un’etichetta del genere:

La Food & Drug Administration statunitense impone che le vitamine e i minerali persi nel processo di macinazione debbano essere aggiunti nuovamente alla pasta prima di essere messa in commercio. L'attuale arricchimento comprende: niacina (vitamina B3), ferro, tiamina mononitrato (vitamina B3), riboflavina (vitamina B2) e acido folico.

Io non sono esperto di chimica, nel questo blog vuole diventarlo. Ma vi lascio questo semplice link per approfondire il perché e il percome di come l’assunzione di queste vitamine e altre sostanze in maniera artificiale non sia la strada migliore per compensare le carenze nel nostro fisico.

Ciò che posso dirvi io è l’impatto sul gusto. La pasta sembra più appiccicosa e oleosa alla vista, nonché con un colore più vivido rispetto alla pasta che siamo abituati ad acquistare in Italia.

Per fortuna esiste anche qui. Bisogna aguzzare un po’ la vista e cercare tra gli scaffali la dicitura Organic.

C’è un’altra pratica, per fortuna sempre meno diffusa nella pasta, ma comunque stabilmente presente negli altri prodotti da forno, che è letteralmente il processo di sbiancamento della farina.
Infatti è molto diffuso trovare la dicitura “bleached flavor” o “bleached pasta” il che come si può immaginare non è il massimo per la salute. Procedura bandita in Europa, consiste nello specifico per la pasta nell’alterazione del colore e della consistenza, in genere per ottenere un aspetto più bianco e luminoso. Il processo di sbiancatura prevede l'utilizzo di agenti chimici o additivi per rimuovere impurità e pigmenti dalla pasta.

Durante la sbiancatura la pasta viene trattata con sostanze come biossido di cloro, perossido di benzoile o altri agenti ossidanti. Questi agenti aiutano a scomporre le proteine ​​e i carboidrati presenti nella pasta, ottenendo una consistenza più raffinata e uniforme.

Insomma un trattamento che sulla carta può sembrare una meraviglia, in realtà vi state ingerendo un sacco di porcate chimiche.

Come dicevo, per fortuna questa pratica sembra essere sempre meno diffusa nella pasta perché durante gli ultimi giri al supermercato non ho praticamente trovato pasta bleached, al momento ci stiamo trovando bene con la linea 365 di Whole Foods che è buona e non ha praticamente nessuna degli ingredienti o non subisce nessuno dei processi elencati in questo post.

Ed è pure prodotta in Italia. Nel frattempo continua la ricerca anche per provare altri brand.

1$ al mese

Negli ultimi giorni ho pensato più volte al mio ultimo post e alle parole utilizzate da altri blogger (si può ancora dire? Si offende qualcuno?) nei loro per descrivere implicitamente lo status attuale della blogosfera italiana. Tendente alla estinzione per lo più.

Ma se guardo dove vivo ora, negli Stati Uniti sta tornando di moda quello che da qualche anno è già in voga grazie alle newsletter. La iper frammentazione e specializzazione di certi argomenti e la garanzia di un pubblico molto vasto, grazie soprattutto all’inglese, sta vedendo alcuni blog abbastanza importanti chiudersi dietro un paywall. O almeno parte dei loro contenuti.

Scelta comprensibile dato il loro contesto, ma che non ho mai personalmente condiviso. Credo molto di più in un modello di supporto libero, dove i contenuti siano sempre e comunque accessibili. Questo blog ha sempre seguito e sempre seguirà questo principio.

Ho deciso però di ravvivare il mio profilo ko-fi e nel farlo ho scoperto che anche altri hanno abbracciato 1$ al mese per supportare ciò che fanno. E nella maggioranza dei casi è solo una cifra simbolica per il mantenimento del dominio e lo spazio sul server che ospita il loro blog.

Qui vi lascio il mio One a Month Club. Il ricavato sarà destinato al rinnovo del dominio (14.99$/anno) e al pagamento delle spese del server (3.85€/mese). Da parte mia cercherò quanto più possibile di scrivere qui rispetto che altrove, portare contenuti diversi su gaming, tecnologia e comunicazione, ma visto che sto facendo tante nuove esperienze anche e soprattutto sugli Stati Uniti.

Se vi va, grazie già da ora.

Ne è valsa la pena

Questa settimana è venuta a mancare una persona importante per la blogosfera italiana e non solo. Giuseppe Granieri l’ho incontrato a qualche barcamp, non abbiamo mai scambiato una chiacchiera più profonda di un saluto, ma ci leggevamo reciprocamente. Ho letto i suoi libri in cui talvolta ho trovato la voglia di buttare giù due righe o anche solo evitare di chiudere del tutto questo posto.

Nel feed mi è apparso un post di Sergio. Ricorda Giuseppe tracciando un affresco malinconico di ciò che è stata quella fiammata chiamata blogosfera attorno all’inizio degli anni ’10 in Italia e che, con mio grande rammarico, oggi non c’è fondamentalmente più.

È inutile elencarne qui tutti i motivi. Ci si può arrivare facilmente passando in rassegna ciò che è arrivato sul mercato negli anni subito successivi e cosa ne è conseguito. Ma quella scintilla, seppur breve e forse insignificante alla stragrande maggioranza della popolazione italiana, ha contato e conta ancora qualcosa.

Ne è valsa eccome la pena. Ha forgiato la maggior parte di noi, ha forgiato una generazione, ha forgiato un’ideologia, molto più umanistica che tecnologica, che certo ora andrebbe evoluta e messa a punto, ma che avrebbe potuto contribuire a correggere le esasperazioni dell’unica idea occidentale di società ancora in circolazione, con l’eccezione forse dei movimenti neo-ambientalisti, ovvero la società dei processi di massa e del consumismo. Per di più nel suo momento più pericoloso: il declino. Non ne abbiamo giovato? Siamo rimasti precari irrisolti senza certezza del futuro? Può essere, ma è il destino che a un certo punto ci siamo scelti, e io anche nei giorni di maggior sconforto non riesco proprio a rinnegarlo.

La forza di quelle connessioni, quelle nate dai cross-link e dai barcamp, per me hanno sempre avuto maggior presa qui, attraverso questo blog. Non ho instaurato nessun rapporto forte e duraturo in nessuno dei social network apparso dal nulla subito dopo. Non mi è rimasto niente delle centinaia di foto o testi pubblicate su piattaforme che ho contribuito ad alimentare con i miei dati. Tutto è sempre e solo partito da qui. Da un blog nato nel 2007 per documentare in viaggio in Canada.

Non sono invece particolarmente d’accordo con la risposta di Massimo:

Eravamo ingenui e in buona fede dentro un enorme errore di prospettiva. Ecco forse questo mi allontana un po’ dalla ricostruzione di quei tempi scritta da Sergio: quella roba lì era la nicchia della nicchia, i nostri blog, gli aggregatori, i feed rss attraverso i quali restavamo in contatto, non influenzava altro se non noi stessi (oltre che i quattro gonzi dei media che sono sempre alla ricerca del nuovo fenomeno da raccontare) mentre gli strumenti di rete sociale che sono venuti dopo (in Italia quasi solo FB) quelli sì hanno modificato le prassi sociali dei cittadini. Certo a quel punto era tardi, la piattaforma perseguiva scopi totalmente differenti, gli utenti affluivano a milioni privi di qualsiasi cultura digitale, il disegno sociale di una società migliore si era rapidamente trasformato in uno scarabocchio che riproduceva la società come era allora. Ma era uno scarabocchio grande, per questo contava, per questo lo si vedeva perfino da Marte.

È vero ci parlavamo addosso, è vero probabilmente solo un infinitesima parte di chi stava online in Italia ai tempi leggeva un blog, ma ai tempi c’era solo quello. C’erano i blog, FriendFee, Facebook e qualche cosina di Twitter. Non c’era altro. In ogni slide di marketing plan durante quegli anni figurava il volto di un blogger non di un influencer, non di un creator.

E per me tanti di quelli che leggevo ai tempi (e che a volte hanno continuato altrove o semplicemente hanno perduto la verve) sono stati un’enorme fonte di ispirazione. Mi hanno insegnato cose che non avrei imparato altrimenti. A volte mi hanno aperto porte inaccessibili.

È vero. Quel tempo non c’è più. Non è più il tempo di una Rete priva di social media. Non torniamo più indietro dall’era dell’ego. Ma quella corrente positiva di provare a connettere l’idee attraverso una pagina web esiste e perdura ancora oggi. È infinitesimale qui, è una professione per tanti negli Stati Uniti e forse nel resto del mondo, ma c’è di buono che queste pagine personali che abbiamo imparato a chiamare weblog saranno dure a morire.

Update: Sono contento che anche per Enrico valga lo stesso:

Perché, per fortuna, c’è chi ancora è interessato alle idee degli altri, per davvero, senza i filtri che una manciata di società tech hanno deciso di imporci e che abbiamo accettato senza fiatare trasformando noi stessi in qualcosa che non riconosciamo più.

Quindi sì, è valso la pena. E quel movimento sotterraneo, fatto di “puntini” come dice Massimo, prosegue, ha preso mille direzioni, si è articolato e da semplice è diventato complesso, specializzato, si è sprovincializzato, ecc. È talmente grande che è difficile fotografarlo. Tutti noi che abbiamo continuato, chi per mestiere, chi per piacere, a guardare le evoluzioni dello scenario dei media abbiamo dovuto, a un certo punto specializzarci, restringere il focus, scegliere di occuparci di un pezzettino di quella “cosa” che era diventata sempre più grossa e multiforme.

Back Online

È stata una decisione a lungo rimandata quella di spostare il blog fuori dall’ecosistema Squarespace. Per chi mi ha seguito nel tempo sa bene che ho provato a cambiare piattaforma più e più volte per poi ritrovarmi sempre da dove tutto è cominciato.

Un paio di settimane fa più o meno è successo che il backend di Squarespace mi proponesse di aggiornare il software dalla versione 7.0 alla 7.1. Di solito gli aggiornamenti di un sistema software as a service sono migliorativi e difficilmente impattano il lavoro pregresso. E, se lo facessero, lascerebbero quantomeno l’opportunità di tornare indietro...

Ho premuto update senza leggere che una volta aggiornato non avrei potuto tornare indietro. Ho premuto update nella speranza che mi venissero proposte delle nuove opzioni migliorative per il mio blog, mentre è successo un bel patatrac.

Sostanzialmente tutta (o quasi) la grafica del blog è andata a farsi benedire.

Io non sono un programmatore web. Non lo faccio di professione e tutto quello che avete visto nel corso degli anni a livello di “grafica” l’ho imparato per conto mio cesellando il CSS del sito facendo dei semplici A/B test.

Questa volta però mi sono trovato di fronte a una complessità relativamente eccessiva e ho deciso di abbandonare un’ennesima impresa che non mi avrebbe portato poi troppo lontano.

Ho inizialmente vagliato tutte le opzioni disponibili. Ri-spostarmi all’interno di un altro walled-garden (Wordpress.com , Medium) o provare a guardare opzioni web-hosted ma sostanzialmente libere da qualsiasi possibile censura (blot, micro.blog, bear blog etc.).

Fino a rendermi conto di due cose. L’export generato da Squarespace non stava funzionando per nessuna di queste opzioni, sarei impazzito con la rimappatura di tutti i link, per non parlare delle immagini.

Ho deciso di scrivere a Manuel. Ho deciso di chiedere aiuto proprio come lui scriveva nel suo blog. Ho deciso di chiedere aiuto a Manuel perché adoro lo stile minimale del suo blog (anzi vi consiglio di supportare il suo lavoro), perché abbiamo imparato a conoscerci in questi mesi passati attraverso lo scambio reciproco di email, condividendo la stessa idea di internet, e perché genuinamente so che facendolo per lavoro mi avrebbe potuto quantomeno indirizzare verso una soluzione efficace.

È stato molto più di questo. Manuel ha accudito il mio blog come se fosse il suo. Ha assecondato le mie follie sulle spaziature e simmetrie e praticamente ha riportato online la versione migliorata e potenziata della mia precedente casa.

Ora il blog ha un suo server dedicato e funziona grazie a Kirby. So praticamente poco o nulla di quanto ha fatto Manuel nel corso dei giorni passati, ma mi sono reso conto praticamente fin da subito della malleabilità di Kirby e di quanto un sito possa essere adattato in base alle proprie esigenze. Nello specifico le mie :)

Il font scelto da Manuel dovrebbe essere più leggibile, così come la parte di blockquote e i link in generale. Adoro gli effetti colorati sugli elenchi puntati e come si comporta il mouse all’hover di un link giocando con la palette del logo. A proposito di novità:

  • Il vecchio RSS feed non è cambiato, ma da oggi esiste anche un nuovo e più pratico indirizzo a cui abbonarsi, ovvero: https://gwtf.it/feed
  • I link ai vecchi post sono al 90% tutti attivi e funzionanti. Devo ancora sistemare qualche vecchio post, ma se arrivate da qualche social o link di condivisione dovreste atterrare correttamente nei vecchi post
  • Da ora in poi ho abbandonato la URL composta da anno, mese, giorno, a favore solo del titolo del post

Ho disinstallato l’app di Squarespace dal mio telefono, dall’iPad e sganciato tutto quello che gli apparteneva dal backend. Ora ho installato ia writer ovunque. Dovrò familiarizzare un pochettino con Markdown e finire di sistemare qualche vecchio post. Ma a parte questo…

Bentrovati!

Scrivimi. No, davvero.

Nell’ultimo anno i commenti al blog sono diminuiti drasticamente. Avevo già operato un taglia e cuci qualche mese fa snellendo l’home page. Oggi, ispirato anche dal post di Manuel, ho deciso di chiudere definitivamente i commenti del blog.

Motivo? Molto semplice. In 4 mesi ne ho avuti 5. Ma in 4 mesi ho scambiato molte più email con sconosciuti che, grazie al blog, mi hanno raggiunto.

Perciò, chiudendo i commenti il blog dovrebbe caricarsi ancora più rapidamente in primis. In secondo luogo ora trovate nel menu in alto bello in maiuscolo la parola SCRIVIMI. Il form che c’è all’interno non è nient’altro un’interfaccia con la mia casella di posta personale. Qualsiasi cosa scriviate lì dentro finisce nella mia gmail privata e da lì posso interagire con voi senza problemi.

Ci tengo, mi fa molto piacere e grazie ad essa ho conosciuto tante persone interessanti. Soprattutto blogger stranieri.

Quindi la mia email è sempre aperta e disponibile. Chissà che finalmente ci si possa conoscere meglio!

Internet ha già abbastanza falsità

The internet has enough fakeness. It has enough hot takes, perfect websites, and thoughts on the latest political/news stories. Write about you, write about the person behind the screen who wants to be seen and heard. Write about what makes you tick and what makes you happy. That's the blog I want to read and that's the type of blogs we need if we want to make a better internet. We don't need another news blog, we need something folks can relate to and something you can show your not so tech savvy friends that makes them think, "Wow, the internet can be something more than just Facebook, TikTok, or Twitter. Maybe I should stop scrolling for a second?"

Oggi ho scoperto un nuovo blog. E già per me è una notizia positiva per la giornata. Se poi si tratta di relazioni digitali e come esse possano essere veicolate attraverso un blog personale ancora meglio.

Nell’incentivare le persone ad avere un blog personale, Brandon centra secondo me un punto importante dell’esposizione del sé in Rete:

"What if people don't like this? What if people don't like me?" But what is the alternative? Make a fancy blog, that looks perfect and discusses things I'm not truly passionate about? To create a facade that I am someone that I'm not. How is that any different than social media?

Scrivere online e farlo tutti i giorni, con costanza, scambiandolo quasi per un dovere a volte costa fatica e non sempre è facile, come scrive un’altro blogger, Greg:

To be honest, I am only here because it's a habit, and I like playing around with my website. It's fine to write about your life and other such interests. My favourite blogs to follow do exactly that, but it's absolutely understandable if you don't want to do that. Blogging isn't easy, and no amount of rose-tinting will change that, but that doesn't mean you shouldn't try.

Questo però non dovrebbe fermarvi dal farlo. Da provare a riappropriarvi di uno spazio vostro, senza algoritmi, dove lasciare una traccia, qualsiasi essa sia, di voi stessi. Fatevi conoscere, condividete le vostre passioni, ansie, gioie, paure, fallimenti.

C’è sicuramente qualcun altro che ha vissuto lo stesso, si potrà riconoscere in voi e forse sentirsi meno solo.

Relazioni digitali

Ogni volta che leggo il blog di Manuel o imparo qualcosa di nuovo o ancora meglio conosco altri blogger. E nel farlo provo sempre tantissima invidia perché la maggior parte ha una landing page pulita, minimale, come la vorrei io.
Non che la mia non lo sia, ma vorrei fosse ancora più leggibile e maggiormente interoperabile con tutti i sistemi sul mercato. Ma forse sono troppo vecchio e il mio archivio troppo lungo per mettermi di nuovo a smanettare con export, import e altre diavolerie con codice alle spalle.

È accaduto anche questa volta. Mi sono completamente perso il topic di febbraio di IndieWeb (ma provo a recuperare ora) e ho scoperto lo stile bellissimo di Tangible Life ad esempio.

Tornando a noi. Il topic di febbraio è un argomento a cui sono parecchio legato. Si parla di Digital Relationships. Le relazioni interpersonali online mi hanno sempre affascinato, ne ho fatto materia di studio nella mia tesi di laurea e dal 2006, quando ancora in pochi stavano osservando la cosa, il fenomeno si è evoluto tantissimo.

Qualche anno prima The Cluetrain Manifesto ci aveva visto giusto anche sull’aspetto business. Internet ha aperto alle conversazioni come nessun’altra piattaforma prima d’essa. Ha fatto diventare gli spettatori partecipanti attivi prima, creatori poi e infine li sta mettendo davanti alla decisione se demandare parte di essi a un’intelligenza artificiale.

Ma ciò che una AI non potrà mai forse sostituire in pieno sono le dinamiche di interazione interpersonale online. Dagli incontri casuali online nascono quotidianamente idee, progetti, aziende multi miliardarie e amori.

Posso dirmi solo che fortunato per aver vissuto i primi anni di questa nuova rivoluzione. Esattamente tra il 2002 e il 2006 se devo essere preciso. I miei anni universitari. Si sono svolti soprattutto online invece che in presenza in classe. Vivevo quotidianamente ore e ore sui forum, sulle chart IRC, su MSN Messenger e ancora meglio su Xbox Live. Grazie all’arrivo di questo servizio anche in Italia ricordo di aver passato un sacco di pomeriggi sì a giocare, ma anche incontrare e parlare per la prima volta con sconosciuti all’altro capo del mondo.

Ho grande nostalgia di quel periodo. Un po’ per il tempo a disposizione. Un po’ perché l’avvento dei social ha un po’ disintegrato quel mondo di persone che si collegavano a un sito web soltanto per cercare, divulgare e scambiare opinioni.

Da quest’era dove l’Internet mi sembrava fosse costruita su la condivisione della conoscenza, dall’arrivo dei primi grandi social network siamo entrati di fatto nell’epoca dell’ego.

E probabilmente a ergersi come unico baluardo di quel tempo ormai andato esistono sì ancora tanti forum attivi, ma penso soprattutto ai blog e a quello che ancora oggi possono rappresentare.

Un punto fermo sovversivo. Rifiuto di qualsiasi logica di monetizzazione a favore del sapere condiviso. Sarebbe bello tutta internet fosse così.

Storie

Sempre un piacere leggere Martino:

Le storie servono prima di tutte a salvarci e poi a farci vivere infinite vite, o almeno molte più di quelle che possiamo vivere nel corpo che ci è stato assegnato. Ce le raccontiamo per salvarci, e ne sono capaci perché sono parabole istruttive o evasive. In entrambi i casi ci salvano, e sono solo due dei possibili casi.

Le storie danno un ordine alla vita: hanno un inizio, qualcosa in mezzo e una fine. La cosa più importante delle storie è che si concludono: non conta come ma conta che si concludano. Conta così tanto che d’un libro potrebbe andar persa una parte e la storia che vi è narrata avrebbe comunque senso, per il sol fatto di concludersi, anche senza una conclusione narrativa: la sua conclusione è infatti l’accidente che l’ha lasciata sospesa nella perdita di una parte di sé.

Fare meglio, non di più

Leggo i post di Luca da tanti anni ormai, prima su Pandemia ora sul suo blog “personale”, e nel seguirlo nel suo percorso di vita inizio ad invidiare un po’ il fatto che sia libero di prendersela con calma e non dover essere legato a nessuna logica lavorativa moderna.

Nel suo ultimo post mi ci rispecchio un po’, soprattutto in questo paragrafo.

Ho capito che ogni volta che leggo qualcosa che spinge all’essere più produttivi devo quasi fare l’opposto. Prima cosa, ovviamente, è smettere di leggere questi contenuti. Non voglio essere più produttivo. Basta! L’obiettivo è fare ciò sento di voler fare, nei tempi necessari, qualsiasi essi siano, senza fretta, senza corse, senza pressione. Se alla fine della giornata ho chiuso metà delle cose che avrei voluto chiudere, amen. Va bene così. Va bene lo stesso. La salute mentale e il benessere psicofisico sono più importanti della produttività. Sì, lo so, sono un privilegiato ad anche soltanto ipotizzare un discorso simile: non ho un capo, non ho vincoli imposti da terzi, non ho scadenze, non ho pressioni, se non quelle che impongo io a me stesso.

Siamo così tanto abituati al concetto di produttività che ahimè lo si sta definitivamente scambiando con quello di felicità. Ed è assolutamente grave. Il vero tesoro di questi tempi è ormai avere a disposizione la minima fortuna di poter gestire il proprio tempo e vivere felicemente allo stesso tempo. Concetto che troppo spesso e volentieri va di pari passo con la disposizione monetaria necessaria per poterlo applicare senza fatica.

Mi domando se si potrà mai spezzare questo circolo vizioso. Se l’AI, le macchine in generale ci aiuteranno a vivere meglio come si dice oppure lascerà senza lavoro tante persone peggiorando ulteriormente la situazione. Ho la sensazione ad ogni modo di essere testimone di un’importante spartiacque su come viveremo da qui ai prossimi decenni.

Lo stiamo decidendo ora.

Assicurare un’auto in California da neo patentati e neo immigrati

È un cazzo di casino.
No davvero, lo è.

Come scrivevo nel post precedente abbiamo acquistato un’auto usata di un paio d’anni di vita a fine gennaio, subito dopo aver ottenuto le nostri patenti di guida californiane.

La cosa bella di acquistare un’auto negli Stati Uniti è che entri in un concessionario e in meno di due ore esci fuori con un’auto. Questo perché, nel nostro caso almeno, puoi stipulare un nuovo contratto assicurativo direttamente in loco con una società terza che ti consente così di uscire da lì con tutti i documenti perfettamente in ordine.

Solo che quest’assicurazione ha una scadenza. Ti dovrebbe dare il tempo sufficiente per trovarne un’altra e stipulare un nuovo contratto. Il fatto è che in più di un mese di tempo abbiamo collezionati buchi nell’acqua uno dietro l’altro:

  • In tanti ci hanno consigliato GEICO, che io conoscevo soltanto per gli spot del Super Bowl, in quanto economica e “aperta” a neo-patentati in arrivo da Paesi esteri. Ma dopo aver richiesto un preventivo attraverso l’app mobile, ci hanno risposto per posta. Posta tradizionale, non via email. Una settimana dopo. Richiedendoci dei documenti per email e specificando che avrebbero risposto SOLTANTO a mezzo posta. Ancora oggi stiamo aspettando che ci diano un feedback sulla documentazione inviata
  • Abbiamo provato con degli agenti di agenzie locali. Abbiamo mandato all’incirca 11 email. Solo due persone ci hanno risposto. Il primo proponendoci un’alternativa soltanto, la seconda ci ha risposto dicendo che la compagnia assicurativa che rappresenta non assicura nessuno se non con 18 mesi di storico di patente alle spalle
  • Online esistono tantissimi tool di comparazione prezzi che fondamentalmente non fanno altro che collezionare dati personali per poi rivenderli alle società assicurative senza effettivamente portarti a nulla di concreto e comunque non esistono compagnie in grado di attivarti una assicurazione lo stesso giorno in cui si decide di sottoscriverla a quanto pare

Risultato? È da 4 giorni che la nostra Volkswagen Jetta riposa in garage. Costringendoci a spostarci con Uber o facendoci venire a prendere, come nel mio caso da un collega, per un evento a cui ho partecipato domenica.

Da oggi però finalmente abbiamo un’assicurazione. E ce l’abbiamo con Tesla.

Sì, con Tesla. Perché solo in California Tesla consente di sottoscrivere un’assicurazione auto anche per auto non Tesla e consente di farlo tramite l’app in meno di 5 minuti. L’ho scoperto fortuitamente su Reddit dove stavo cercando disperatamente una soluzione a questa assurdità.

Paghiamo meno della sola opzione che ci hanno proposto e ci lascia tutta la tranquillità di poterci guardare in giro scontrandoci con i tempi biblici dei competitor.

Eh sì. Diamo soldi ad Elon Musk. Ma almeno ci ha risolto un problema in 5 minuti.