Ho provato PlayStation VR2

Domenica sera ho provato finalmente PlayStation VR2. Non ho avuto mai esperienze precedenti di realtà virtuale e la curiosità mi stava uccidendo. Ho chiesto a Marco se gentilmente mi potesse dare l’opportunità di farlo. Non perché meditassi l’acquisto, ma per genuina curiosità di testare una tecnologia che sta vedendo, forse realmente solo ora, il suo momento di crescita verso una sperata maturità.

Ho giocato per 2 ore scarse e qui ci sono le mie impressioni:

  • Ho iniziato con Pistol Whip. E penso non avrei potuto iniziare meglio la mia esperienza. È un rhythm shooter eccezionale che penso esprima al meglio cosa puoi fare con la VR con molta semplicità. Sparare, interagire con l’ambiente e avere un senso di spazio e immersione piuttosto totale
  • Ho proseguito poi con Rez Infinite. Qui il senso di immersione è, se possibile, anche maggiore. Il trailer in 2D non rende assolutamente giustizia a un ambiente 3D dove si fluttua nello spazio con le classiche dinamiche di Rez con l’aggiunta di poter mirare semplicemente con il movimento degli occhi. Qui forse ho avuto la prima percezione di instabilità fisica, nel senso girandomi talvolta di scatto mi pareva di cadere
  • What a bat? è tanto semplice quanto geniale nelle meccaniche. Qui però ho avuto la sensazione che quanto accadesse a schermo non corrispondesse appieno ai miei movimenti, sia in termini di traiettoria sia di forza. Un titolo ottimo per potersi rilassare e far muovere un po’ la mente
  • Siamo passati poi all’artiglieria pesante. Horizon Call of The Mountain VR. Rispetto a tutti gli altri ho avuto la percezione dell’ambiente e dello spazio fisico attorno a me molto bene. La parte di arco e di arrampicata mi ha preso subito e il mio corpo si è adattato bene a tutte le attività senza particolare fatica. Qui Marco mi aveva avvertito avrei potuto iniziare a sentire lo stomaco rivoltarsi. Ma stranamente fin qui tutto bene
  • Le cose sono iniziate a precipitare con Kayak VR: Mirage. Ho scelto la situazione forse peggiore. Mappa Norvegia in piena tempesta con acque agitate. Ho retto forse 10 secondi e dovuto fare un attimo di pausa. Incredibilmente non soffro e non ho mai sofferto di mal di mare. Ma mi sono bastati pochi momenti per dover spegnere subito il gioco
  • E arriviamo al capostipite della motion sickness in VR. Gran Turismo 7. Anche i più avvezzi alla tecnologia mi dicono avere qualche difficoltà nel rimanere sani. Anche io sono crollato dopo due giri, non so se dovuto alla respirazione o a una impostazione sbagliata sulla direzione verso la quale far puntare l’occhio, ma ho iniziato a sentire forte la sensazione di nausea. Ho completato però i due giri del tracciato arrivando 1° e, a differenza del gioco classico, ho sentito di avere una padronanza sulla pista pressoché totale proprio perché riproduce fedelmente la sensazione di essere all’interno di abitacolo, con suoni e distanze perfettamente bilanciate per farti credere di essere lì.

Dopo aver scoperto che esistono poche DEMO a disposizione e poca possibilità di ricevere un rimborso dopo qualche ora di gioco, mi sento di escludere in questo momento l’acquisto di un caschetto PlayStation VR2. In primis per il costo paritetico alla console, in questo momento ancora ingiustificato. In secondo luogo perché non posso sapere come il mio corpo reagirà ad altri giochi in futuro. So che si può allenare e limitare di molto la sensazione di malessere, ma contando la scomodità, il poco spazio che avrei in salotto…tutto propende per ancora svaccarmi sul divano e fare come ho sempre fatto.

The Last Of Us - Season Finale

Queste 9 settimane sono letteralmente volate. E ogni lunedì è stato scandito con l’appuntamento fisso del nuovo episodio di The Last Of Us. Non starò qui a fare il compitino-recensione e a raccontarvi di cosa trovare dentro questi 9 episodi, soprattutto se avete già giocato il gioco.

Quello che posso dirvi è come li ho vissuti io. Qual è il senso che ci ho trovato. La trasposizione televisiva di un videogioco, talmente sopra le righe da spazzare via qualsiasi capacità di storytelling nel mezzo video ludico, ha trovato alcune opportunità, qua e là, per ricordarci che anche nel folle mondo devastato da una pandemia l'amore è possibile e, per estensione, sono possibili vite significative basate su di esso.

La serie (e ovviamente anche il gioco), riflettendoci bene, si basa in effetti sul concetto dell’eterna dualità, con la sua inquadratura della relazione tra Bill e Frank, con la tragedia di Henry e Sam, Joel ed Ellie e il loro rapporto all’inizio complicato e poi così indissolubile, la dualità interiore dell’esser buoni ma all’evenienza anche spietati. Un’inesorabile dualità fatta di perdita e tragedia, con un necessario e sempre presente contraltare romantico per ricordarci cos'è l'amore, qualsiasi tipo di amore. E in questi 9 episodi ne sono stati esplorati molti.

Ma l’amore fa fare anche cose terribili, se viste dalla prospettiva del bene universale dell’umanità. E mi riferisco al finale ovviamente, dove siamo portati a empatizzare con quanto Joel fa con Ellie, mentre se realmente si potesse trovare una cura alla pandemia forse il sacrificio di una singola vita umana sarebbe valsa la perdita.

Questa eccezionale serie, passata per inevitabili processi di sottrazioni rispetto al videogioco, è la prima vera opera in cui non è stato mandato al macero il materiale su cui si basa e setta un nuovo standard qualitativo in merito di trasposizioni da un mezzo notoriamente interattivo e pieno di dettagli a uno passivo in cui andare al sodo è spesso importante per tenere spettatori incollati allo schermo.

Non vedo l’ora della stagione 2, anche se conosco già il finale.

★★★★★

Alexa, aggiungi un appuntamento

E oggi in pausa pranzo, visto che avevo qualche minuto libero a casa, ho provato a fare dei test dopo il racconto di ieri.

Sì, ho un calendario con le partite della Juventus

Sono tornato sull’app di Sonos e ho disinstallato Google Assistant da tutti i dispositivi abilitati. Mi sono soffermato sul logo di Amazon Alexa e ho deciso di darle una chance.

Mosso dal…Stai a vedere che…ho seguito tutti i passaggi, stabilito il mio indirizzo di casa, sincerato che Alexa scandisse bene il mio nome di battesimo, aggiunto Spotify come servizio preferito e…integrato Google Calendar!

Inutile dirvi che Alexa non solo legge ogni appuntamento del mio account Google Workspace, ma mi permette di crearne uno nuovo e di modificare quelli esistenti.

Trovo il tutto particolarmente buffo e assurdo allo stesso tempo.

Hey Google, aggiungi un appuntamento

Non siamo mai stati grandi fan degli assistenti vocali in casa. A parte avviare il timer di Siri per tirare fuori qualcosa dal forno in tempo, non ne abbiamo mai sentito l’esigenza. Per spegnere le luci o chiedere le porte abbiamo sempre preferito muovere i nostri pesanti culi invece di abbandonarci alla pigrizia. Da qualche mese, come scrivevo, sono passato completamente alla suite Google Workspace. Fa quello che deve, risponde bene alle mie esigenze e parla con il mondo esterno nel modo in cui ci si aspetta.

E complice l’arrivo di Sonos Arc nel salotto, ho abbiamo voluto dare una chance all’assistente vocale di Google, avendo praticamente tutta casa in filodiffusione con almeno una cassa Sonos.

Soprattutto in cucina, dove tra una richiesta del meteo per la giornata (chi va in moto mi può capire) e farsi dettare la ricetta per una passata alla zucca, abbiamo pensato fosse arrivato il momento di provare questa mirabolante tecnologia senza dover affidarsi tutte le volte all’uso delle mani.

Sonos è fenomenale, in cucina abbiamo una fantastica cassa ONE che integra sulla carta perfettamente l’assistente Google, così anche quello di Amazon oppure quello proprietario di Sonos per gestire la musica e basta. Una scelta da fare su questi tre e per ovvie ragioni ho puntato su quello di Google. Nei primi giorni tutto bene, niente di complicato. Poi iniziano i primi segni di cedimento:

Hey Google che tempo fa domani…A Uboldo, via XYZ (VA) il cielo sarà coperto…

Uboldo???

Ho controllato qualsiasi settaggio possibile, sia sull’account personale di Google, sia all’interno del pannello Admin. Controllato online ogni possibile guida. Niente. Google pensa siamo in provincia di Varese. E dici ok.

Due sere fa a cena mi è venuta in mente una cosa importante. Un reminder per la mattina successiva, al ché ho improvvisato un…

Hey Google, ricordami questa cosa per domattina alle ore 7.00…Mi dispiace, ma non ho ancora accesso al tuo calendario, ma continuo ad imparare ogni giorno.

Ma in che senso scusa? E di nuovo via di guide online, ricerca di consigli su forum vari su come risolvere fino a che ho trovato una NON soluzione.

Sostanzialmente se si aggancia un account Google Workspace che ha una lingua diversa dall’Inglese, l’Assistente Google non riesce ad accedere al calendario dell’account. Non lo credevo possibile e invece il thread sulla community ufficiale riporta la questione come attualmente irrisolvibile se non attraverso un intervento di Google stessa. Il problema non è Sonos, il problema non è Assistant, il problema è la lingua diversa da quell’Inglese.

Un’inutile assurdità che già mi ha fatto stancare degli assistenti vocali e fatto pensare a come fino ad ora sia vissuto sostanzialmente benone senza…

Le canzoni saranno sempre lì (?)

Ieri pomeriggio siamo capitati in una rivendita di vinili usati. Sapete, una di quelle situazioni in cui ci sono tante bancarelle diverse in cui le persone vanno a cercare quella chicca da collezione, a iniziarne una, oppure semplicemente a fare i nostalgici di un ritorno a un passato che non c’è più. In realtà ci siamo andati perché uno zio di mia moglie fa mercatini e rivende quel tipo di mercanzia.

Ci raccontava delle varie tipologie di avventori. Tra i tanti casi, più o meno umani, sembrano esserci tanti giovani attratti dal supporto. Tanti in cerca di album perduti, in cerca di un suono diverso…? Non lo so, non ho mai ascoltato il vinile, ma leggevo qui e anche altrove che la sua qualità seppur caldamente artigianale tanto da risvegliare mode, non è migliore rispetto a una cassa di buona qualità attaccata a un servizio streaming.

Mi ha fatto riflettere sulle possibili altre motivazioni. Ancora di più sul momento “fruizione musica”. Ne esiste ancora uno? Esiste un preciso momento in cui dite a voi stessi…oooh fanculo tutti, ora mi metto sul divano e mi sparo un disco dall’inizio alla fine senza rotture di scatole tirando fuori un vinile?

Se è così, vi invidio. Riflettendoci non ne ho mai avuto uno. La musica mi è arrivata sempre in momenti “altri”. In auto, dallo stereo mentre studiavo, dalle casse del computer mentre digitavo i miei primi caratteri, dalle casse Sonos connesse in filodiffusione in casa o non ultimo dalle cuffie collegate allo smartphone.

Ritornando alla prima domanda, cosa cerca chi compra ancora un supporto fisico? È strettamente legato a un momento speciale nella loro vita in cui c’è solo musica e nient’altro. Se si tratta di esperienza d’ascolto più che un effettivo ascolto qualitativo (inteso proprio di bitrate percepito dall’orecchio)?

Chi sa mi risponda 😆. Poi, come ogni volta in cui penso di scrivere qualcosa gli atomi del mondo si connettono e trovo strascichi del mio pensiero altrove. Sull’argomento questo weekend il post di plus1gmt trattava di striscio l’argomento in un passaggio:

Oggi ciascuno di noi ha a disposizione la propria radio personale che, come fanno i liceali con le versioni di latino che rintracciano nelle occasioni in cui ancora qualcuno chiede loro di mettere in pratica le regole di traduzione, evoca secondo un palinsesto il più in linea con i propri gusti. Il rischio è, come saprete, che manchi l’intermediario esperto in grado di ampliare le conoscenze dell’ascoltatore che, abbandonato a sé, finirebbe per non aggiornarsi più. Un rischio che abbiamo accettato di correre, sacrificando il richiamo dell’ignoto alla comodità. Il punto è che nell’abbondanza delle scorte – le piattaforme di streaming contengono qualsiasi rumore emesso dalla totalità degli esseri umani dalla loro comparsa sulla terra – non ci siamo ancora abituati al fatto che le canzoni sono sempre lì. Per questo ci sono ancora individui a metà strada di questo processo di cambiamento, persone che acquistano musica su supporti fisici (ma la stessa cosa vale per i libri o i film o per l’arte o per le cartine geografiche o anche solo le fotografie) per possedere le canzoni. L’equivoco è che la ricchezza consista ancora nella proprietà privata delle cose che ci piacciono per poterne disporne in ogni momento. Da qualche anno ascolto una stazione radio che è molto in linea con i miei gusti. Non ci sono speaker inutili ma è una infinita playlist piena di musica di cui sono in possesso e di altra tutta da scoprire. Non c’è molta differenza tra questo modello e Spotify, ma l’ascolto a sorpresa di un pezzo che amo è un piacere che continua a non avere confronti.

Io ad esempio non potrei fare più a meno di Spotify. Della Discovery Weekly ancora di più che le scoperte casuali tramite playlist di amici o trovate in Rete. L’algoritmo ha raggiunto un certo grado di raffinatezza nei miei confronti per cui non troverei soddisfazione altrimenti. Sono uno a cui piace ascoltare costantemente nuova musica, come per i libri, difficilmente torno ad ascoltare un disco intero per più di qualche manciata di volte. Trovo particolarmente soddisfacente il fatto di sapere di avere a disposizione con pochi click la prossima band che mi farà rinnamorare nuovamente del rock and roll, e questo per me è sostanzialmente irrinunciabile.

Dall’altra tutto questo potrebbe dissolversi nel nulla da un giorno con l’altro. Se domani cessassero di esistere contemporaneamente tutti i servizi di streaming io dovrei ricostruire un decennio di libreria musicale che ho consegnato nelle mani di società private. Uno scambio equo nel quale entrambe le parti godono, ma se una di queste scappa con il bottino l’altra resterebbe a mani vuote. Per la gioia di chi in questi anni ha incasellato quadrati su quadrati nelle proprie librerie in salotto per darsi un tono.

Provo a cambiare prospettiva. Se avessi in questi 10 anni acquistato tutti gli album ascoltati, e attualmente nella mia libreria, credo non avrei potuto permettermi nessun’altra spesa extra se non quella dedicata ai dischi. Ma soprattutto, posso affermare con una certezza quasi assoluta, non avrei mai e poi mai scoperto nuove realtà sonore frequentando soltanto forum e mercatini dell’usato o negozi di dischi. È un fatto. E bene o male la scelta sta nello scommettere su quale supporto lasciare la colonna sonora della propria vita ai posteri.

A voi la scelta.

Non si può più dire niente

Ho pensato a questo post per diversi giorni. Forse settimane. Da quando, già da prima dell’uscita di Hogwarts Legacy, imperversavano online assurde teorie sul dover boicottare un gioco perché trae ispirazione dalle opere di una persona con idee fuori dal tempo. Assurdo. Tanto da dover spingere gli sviluppatori a spiegarsi nella sezione FAQ.

Update. Colgo lo spunto di Daniele di Frequenza Critica per linkare questo:

Sia come sia, voglio chiudere questo lungo articolo linkandovi una bella iniziativa dellɜ nostrɜ amicɜ di Gameromancer. Qui trovate un elenco di content creator e attivistɜ appartenenti alla community LGBTIQA+, nonché videogiochi indipendenti che affrontano le tematiche di genere. Buttateci un occhio.

Poi passiamo ad Atomic Heart. L’opera prima della software house Mundfish con base a Cipro e con un’ambientazione sovietica subisce da settimane ogni tipo di accusa. Dal passare dati alla Russia, al sostenere il regime di Putin ad aver fatto apposta ad averlo lanciato nei giorni in cui cade l’anniversario dell’inizio del conflitto con l’Ucraina. Niente di tutto ciò è vero, ma sta alimentando il carrozzone di quelli “È legato in qualsivoglia maniera alla Russia? Allora è merda”.

Finiamo con le fiabe di Roald Dahl. Di cui ho letto da piccolo il GGG. Nient’altro. Non sono cresciuto con opinioni razziste, né tantomeno sprizzo disuguaglianze da tutti i pori. Eppure la società che ne detiene i diritti sta mettendo in atto una massiccia riscrittura di alcuni passaggi di tanti libri dell’autore per non urtare la sensibilità dei futuri piccoli lettori.

Questi tre episodi sono accomunati da un minimo comun denominatore. I paladini del me-me-me-poor-me si ergono a paladini delle disuguaglianze ripagando con la stessa moneta e attenzione superficiale creatori, artisti e in generale persone di cultura colpevoli di avere un certo tipo di connessione con un’opinione a loro non conforme o semplicemente per aver vissuto nel passato ed essere figli e figlie del loro tempo.

Poi ho trovato questo post di Giuliana. E come spesso mi succede c’è qualcuno che riesce a esprimere quanto avessi da dire molto meglio:

La scrittura, la narrativa in modo particolare, descrive mondi che hanno loro linguaggi specifici e usa le parole che sono tipiche dei tempi in cui vive l’autore, a meno che l’autore non crei parole che vengono utilizzate nel mondo che sta descrivendo che non coincidono con le parole del vocabolario utilizzato nella sua lingua. Vedi J.K. Rowling in Harry Potter. Peraltro stiamo parlando proprio di una persona che si ritiene vittima del politically correct e che viene boicottata a causa delle sue idee transfobiche.

Di fatto la riscrittura dei libri di Roald Dahl, un uomo nato in un’epoca diversa, con sensibilità diverse ed espressioni decisamente meno attente ai sentimenti altrui (ma, oh, era così e nessuno, nemmeno chi si sentiva offeso, avrebbe mai pensato di chiedere un linguaggio differente, può chiederlo ora a chi arriva dopo, ma ancora oggi non lo chiede ai suoi nonni, per dire, perché non otterrà nulla di nulla) è un’aberrazione.

E francamente non serve a niente. Perché i bambini che leggono Roald Dahl non imparano quel linguaggio dai libri. Casomai se lo trovano in quei libri saranno spinti a chiedere perché ci sono parole che non sono consentite nel linguaggio di tutti i giorni e se sono bambini abituati a fare domande agli adulti che li circondano chiederanno.

Il problema invece è che esistono adulti spaventati all’idea che i bambini facciano domande. Che possano mettere in crisi la loro tranquillità. Che richiedano tempo per delle spiegazioni spesso impossibili da dare perché molti adulti non hanno idea di come spiegare le cose importanti ai bambini.

Allora che facciamo? Togliamo il problema. Riscriviamo i libri.

Cresciamo generazioni di bambini che non devono avere dubbi e non devono fare domande che mettono in crisi.

Non è cancellando il passato che si costruisce un futuro migliore. Anzi, tutto il contrario.

Piaceri

Faccio fatica a comprendere il perché abbiamo deciso di adottare il termine guilty pleasure dalla lingua inglese. Perché un piacere deve essere peccaminoso? Perché deve farci sentire in colpa?

È un piacere perché ci fa star bene, non perché deve portarci a farci soffrire. Sempre con questo maledetto giudizio altrui, l’accettazione dell’apparire. L’essere è talmente sottovalutato oramai che si fa di tutto per stigmatizzarlo.

Ad esempio. Io adoro guardare dentro le case degli altri. Quando ci sono le finestre aperte, quando ci passo affianco durante una passeggiata. No, non sono un guardone, tantomeno un malato di mente. Adoro il design d’interni e adoro assistere a come altri umani hanno deciso di sistemare il proprio posto sicuro.

Devo sentirmi in colpa? Non ci penso proprio. Potrei andare avanti e fare un elenco infinito di cosa mi piace e cosa no. Purtroppo sono arrivato a un punto dove lascio totalmente correre, un punto dove ho imparato a rispettare e apprezzare le differenze che ci caratterizzano. Spesso non avviene il contrario, ma non me ne preoccupo troppo. Vivo lo stesso.

Hard Disk o Cloud?

Di base una domanda inutile. I servizi Cloud sono spazio su disco di qualcun altro benché lontanissimo dai nostri occhi. L’unico motivo per cui sono portato a scegliere sempre la seconda opzione, e quindi appoggiarmi su servizi terzi che si occupano di storage online, è la presunta infallibilità.

Ovvero, si presume che, per il prezzo pagato, i dati conservati sull’hard disk di un’azienda che fa quello di mestiere non siano mai in pericolo e che se anche dovessero esserci dei malfunzionamenti, i nostri dati in qualche modo siano sempre recuperabili.

No, questa non è una storia triste su come io abbia perduto miseramente i miei dati per averli affidati ad aziende malefiche pronte a spillarmi i soldi in cambio dei miei preziosi file. Tutt’altro. Mi sono imbattuto, anzi, in questo studio fatto da BlackBlaze che dal 2013 analizza il mercato. Nel 2022 oltre 230.000 hard disk di 29 dimensioni avendone a disposizione 60 campioni per ciascun modello, mai utilizzati prima.

Ora non sono esperto in materia, ma oltre 1% di fallimento degli hard disk, soprattutto quelli con una data più avanzata d’età, a me preoccupa. Perché se decidi di salvare tutta la tua vita su un solo disco, e non tieni conto di queste cose, beh forse dovresti iniziare a preoccuparti e prendere delle precauzioni.

Poi, sarà che starò invecchiando e quindi ho un’apprensione sempre più crescente nel pensare di perdere i miei ricordi digitali, ma è da quasi un anno e mezzo che sincronizzo tutto su tre servizi differenti e dormo tranquillo.

Ah, non comprate Seagate a quanto pare…

Spotify Car Thing. Un inutile oggetto utile

Ho scritto decine di post sui servizi di streaming musicali. Alla fine mi sono arenato su Spotify in attesa del tanto sperato Hi-Fi. E da vero feticista, una volta notato il suo utilizzo bislacco, non ho potuto fare a meno di accaparrarmi uno Spotify Car Thing.

Questo device, ormai dismesso dalla produzione, è stato pensato da Spotify per dotare di un’interfaccia semplice e veloce quelle macchine abbondantemente vetuste ancora sprovviste di un sistema d’infotainment sufficientemente capace.

Perché acquistarne uno, a un prezzo così alto (l’ho pagato circa 90 euro, mentre veniva commercializzato a poco più di 30$) per tenerlo in casa? Semplice, perché grazie alla funzionalità Spotify Connect ciò che si sta ascoltando su un device, può essere riprodotto anche su un altro. E sebbene Car Thing sia pensato per funzionare in bluetooth con uno smartphone, è sufficiente selezionare il vostro computer desktop come fonte di trasmissione per comandare il tutto da questo piccolo schermo.

Lo so. È inutile se ci si pensa. Ma è estremamente comodo quando si hanno mille finestre aperte e si vuole skippare una canzone, alzare o abbassare il volume, far partire una playlist preferita. Senza contare che si aggiungono anche i comandi vocali, seppur in inglese, con cui comandare il tutto.

Insomma, come detto, un aggeggio da veri feticisti, ma estremamente comodo se passate tante ore al computer e la musica è la vostra fidata compagna.

L’ho acquistato su eBay, nuovo, a quasi 90 euro. Lo trovate anche su StockX, ma i prezzi si stanno alzando parecchio.
Vedremo fin quando Spotify lo supporterà, visto che c’è una pagina dedicata agli update dello stesso. Nel frattempo, buon ascolto!

Perdona il vocale

Quando ti chiedo di perdonarmi per i miei messaggi vocali, ti sto dunque dicendo questo: che non voglio “toccarti”, irrompere nella tua bolla con la forza dell’affabulazione e la potenza della mia voce, ma anche che vorrei tremendamente farlo. Oppure, al contrario, dicendo “Perdona il vocale”, esprimo il desiderio di utilizzare questo mezzo al massimo delle sue possibilità (narrative e sonore) ma anche la consapevolezza che tutto ciò non è possibile (è mai possibile “godersi un vocale”?). Come nella segreteria telefonica di un vecchio film, vorrei lasciare messaggi romantici e frasi sulle quali dormire sopra, discorsi che fanno sognare o quantomeno da meditare. Come in un podcast, vorrei poter avvolgere e coinvolgere con i fili della trama, appassionare, tenere compagnia a distanza con parole, musiche e suoni ambientali, senza perdipiù la pretesa di ricevere indietro una risposta. Se davvero è il walkie talkie a prendere il sopravvento, orientando il messaggio vocale verso le funzioni per così dire “referenziali” e “persuasive”, fatte di riferimenti geografici e parole d’ordine, si abbia almeno il coraggio, ogni tanto, di concludere la conversazione con un bel “passo e chiudo”!

Forse prima o poi smetteremo di chiedere perdono per i vocali. Forse stiamo già smettendo e – lungo il filo del medium – nuovi possibili incipit combattono l’uno con l’altro per l’egemonia, per riuscire ad esprimere sinteticamente che cos’è e che cosa sta diventando Whatsapp (o chi per lei).

Che bello questo post sui messaggi vocali di Francesco Zucconi. Da quando sono arrivati il mio rapporto con essi è cambiato, forse, drasticamente. Inizialmente li consideravo nocivi, terribilmente noiosi e spesso sostituiti dalla domanda: ma non facevano prima a chiamarmi?

Con il passare degli anni, però, li ho rivalutati estremamente. Pur non amando il suono della mia voce, forse mi disturbano ancora di più le telefonate. Ed è da questo probabilmente che deriva la mia riconsiderazione.

Ci sono messaggi per cui la voce è essenziale, farne capire i toni, le sfumature, per cui servirebbero molte più parole scritte. Molte più perifrasi per esplicitare meglio il senso di quanto scritto. Ci sono occasioni in cui non si vuole disturbare con una telefonata, orari in cui non ci si può permettere di farlo, ma si rende necessario comunicare in maniera più personale, più calda.

Non dico di preferirli. Anzi, se posso cerco di evitarli in toto. Ma ecco, se inizialmente non te lo saresti mai aspettato da me, ora se lo ricevi vuol dire che devo dirti qualcosa di importante e che necessita una spiegazione puntuale, ma che al tempo stesso non voglio romperti i coglioni e te lo puoi ascoltare quando vuoi.