Ho letto il nuovo saggio di Mantellini tutto d’un fiato in questo giorno e mezzo di trasferta. Se nei primi suoi scritti ci trovavo tesi piuttosto azzeccate e figlie dei tempi in cui sono stati redatti, in quest’ultimo, dove il tema della vecchiaia fa da padrone, credo ci sia una profonda riflessione personale sulla sua condizione attuale in cerca di analisi. Probabilmente è la distanza d’età che ci fa vedere le cose in modo differente e tra qualche anno, rileggendolo, forse mi ci troverò, ma ecco il primo scoglio dopo poche pagine: come può uno zaino di pelle con dentro un computer o un taccuino essere segno di vecchiaia? Lo fanno tutti, a qualsiasi età in una settimana lavorativa qualsiasi su un frecciarossa diretto da qualsiasi parte.
Provo a dare la mia chiave di lettura, personale, da lettore, certo, ma anche da uno che è online dal 1994. Più che di vecchiaia, leggo di decadenza. Nessuno nei social network bada troppo all’età che una persona ha, bada ai contenuti, bada a quanto c’è scritto e a quanto ha condiviso. Continueranno a non esserci selfie postati da persone anziane? Pazienza, magari quanto scattato con l’obiettivo esterno del loro cellulare a bottoni enormi ha ancora qualcosa da dire ed è importante, e farà parte, si spera, di un continente altro e diverso dai social di oggi.
Ho quasi 20 anni meno di Massimo. Proprio quest’anno entro nei 40 e non mi sento un vecchiogiovane, il concetto che introduce per rappresentare chi in Rete ha passato l’età adulta ma non è ancora anziano. Non rigetto affatto i momenti spesi online, le foto che conservo gelosamente in archivio non sono lo specchio riflesso di un risentimento verso la mia età attuale e dalle quali mi allontano fingendo di essere chi non sono. Mi raccontano piuttosto di un tempo che non c’è più e lo reputo giusto. Online sento di vivere nella mia di bolla, nella mia nicchia come dice lui, costruita negli anni ed è basata sui miei personali interessi, al cui interno esistono persone di 18 fino a oltre i suoi 60 anni. E con tutti scambio visioni sul mondo in grado di arricchirci, spero, vicendevolmente. E sebbene anche io non sia più padrone dei nuovi linguaggi, dei nuovi comportamenti online e non li faccio miei per evitare il ridicolo, non mi sono mai scontrato con una barriera all’ingresso del tipo: ma come parla questo?
Per dire, proprio facendo riferimento a lui, non ho mai pensato a Massimo come a un’anziano, a un vecchiogiovane (nella sua accezione del termine) come a uno che finge, ma l’ho sempre considerato per il suo pensiero, le sue idee, ciò che ha condiviso e condivide con il mondo e non certo per i suoi dati anagrafici. Ed è questa la magia della Rete. Non perché si finge di essere chi non si è in realtà, benché Internet ci dia tutti gli strumenti per farlo.
Andando avanti nei primi due capitoli, poi, fa sue parole di altri, di altri tempi e altri contesti applicandole a un concetto che risulta essere troppo soggettivo, costruito soltanto dall’aver vissuto online dai primordi della rete, come tanti di noi del resto, e aver incasellato un certo tipo di esperienza, probabilmente negativa, in una finzione perenne dalla quale emerge un’operazione nostalgia dai teneri risultati.
Nel sottocapitolo dedicato ai The Beatles, ad esempio, ricorda come una cassetta di compilation della band inglese sia stata tra i suoi momenti formativi più importanti, si chiede se quell’episodio possa essere interessante per il lettore, ma senza spiegare minimamente perché quel momento è stato importante per lui e giustificare così il disinteresse generale per i ricordi, anche digitali, è un altro pretesto per forse ribadire quanto non si riconosca più un questo nuovo mondo digitale (?)
Il capitolo terzo invece affronta la questione come si sarebbe dovuta porre forse fin dall’inizio, ovvero nei termini dell’accessibilità tecnologica. Se nei primi due si è discusso implicitamente del contributo di una mente anziana, della quale resto comunque fermamente convinto sapere molto più di una giovane, al rumore di fondo della Rete, nel terzo si pone le giuste domande sul design degli oggetti, sulla probabile inaccessibilità tecnologica dovuta a barriere di aggeggi pensati per un’indefinita fascia d’età e che, se continuerà su quest’onda di innovazione, marginerà sempre di più gli over qualcosa, destinati a diventare la più ampia fetta della popolazione italiana.
Infine, il saggio si conclude con tre soluzioni proposte agli attuali e futuri anziani per resistere o sopravvivere alla tecnologia, o nonostante la sua presenza sempre più ingombrante. Opzioni però disponibili oggi, dove chi come me è ancora nella fase vecchiogiovane probabilmente avrà strumenti di apprendimento maggiormente adeguati rispetto agli anziani di oggi, figli della guerra, della miseria o degli anni immediatamente successivi dove fin dagli albori una scatola con un monitor a sostituire una macchina da scrivere spaventava molti.
In questo omaggio, fin troppo esplicito, a Natalia Ginzburg (che cita 37 volte), Massimo scorda forse anche di menzionare che la tecnologia e l’approccio ad essa sono anche la sintesi di un’operazione composta da due fattori: la volontà e il bisogno. C’è chi come mia moglie, che per molti aspetti invidio profondamente, che se potesse vivrebbe in una dimensione molto più analogica dell’attuale. Ed è più giovane di me. Di contro i miei genitori, quasi ottantenni, hanno ancora quello stupore magico nel capire come in autonomia possano guardarsi un film su una piattaforma OTT o chattare con gli amici su Facebook.
Sono i miei piccoli esempi di vita vissuta, una personale dimostrazione di come le barriere d’ingresso possano essere superate con un po’ di aiuto anche in casi disperati e mentre chi avrebbe tutti gli strumenti per farlo autonomamente, decide di abbandonarsi alla vecchiaia anticipata.
Ripeto. Probabilmente tra qualche anno, rileggendolo, mi troverò dietro lo stesso cannocchiale anagrafico, e potrò dire di aver finto per tutti questi anni di vita adulta e sentendomi emarginato dal mondo.
Fino ad allora continuerò a pensarla diversamente.