Come sbloccare il controller di Google Stadia

Il 18 gennaio 2023 è stato l’ultimo giorno di onorato servizio per Google Stadia. Una chiusura con i fiocchi, da cui tante altre aziende intenzionate a dismettere un loro servizio dovrebbero prendere esempio. Tutti i giochi rimborsati, tutto l’hardware pure, un gioco creato apposta per l’occasione e la mossa finale anti-spreco: lo sblocco del controller per altri utilizzi.

Il pad di Stadia infatti funzionava con un sistema ibrido tra Wi-Fi e bluetooth e non era utilizzabile se non soltanto sulla piattaforma di Google. Con l’addio al servizio ci saremmo trovati con milioni di pad da gettare in discarica, mentre con questo tool in meno di tre minuti e con un browser basato su Chrome si possono sbloccare e utilizzare con questi dispositivi:

  • Windows 10 and 11 + Steam
  • MacOS® 13 + Steam
  • ChromeOS
  • Android

Ho provato subito con MacOS sul mio MacMini e ho giocato un po’ ad High on Life. Mi sembra la mappatura dei tasti segua pedissequamente quella di Xbox, tranne per il tastone home che riporta alla pagina “Giochi” del Mac così come il tasto cattura sembra non funzionare.

L’ho attaccato con il cavo all’Xbox e non dà segni di vita.

Mentre funziona bene con Steam Deck.

Diciamo che per durata di batteria, praticità e il fatto che odio gli sprechi, diventano un’ottima alternativa da portare nei miei viaggi per giocare in Cloud ai giochi Xbox su Mac e con Steam Deck nel suo utilizzo domestico via TV.

Esistono anche guide specifiche per sbloccare il controller e fare pairing con Xbox e PlayStation, ma vi basta googlare per trovarle.

God of War Ragnarök

Avete presente quando dopo qualche anno di attesa vi ri-immergete nella vostra serie TV preferita? Oppure, quando dopo tanto aspettare arriva il momento di poter leggere le prime pagine di una saga letteraria per la quale siete andati in fissa da tempo?

God Of War Ragnarök mi ha regalato le medesime sensazioni. Affidabilità, un ambiente familiare, un combat system (seppur leggermente migliorato) di facile apprendimento e padronanza, l’immersione totale in mondo lasciato sospeso per un periodo troppo lungo e nel quale ero desideroso di tornare.

Questo nuovo capitolo (e forse ultimo) della saga norrena, in cui Kratos invano cerca di starsene in pace, è in realtà un nuovo viaggio verso la maturità da padre, verso la comprensione di lasciar sbagliare il proprio figlio, Atrues/Loki, pur sapendo di averlo equipaggiato di tutti i consigli possibili per affrontare il suo percorso. È la consapevolezza di dover lasciare andare un ragazzo ormai diventato uomo al quale non ha più niente da insegnare, ma anzi da cui dovrà iniziare a imparare.

Il tema della paternità, il vero caposaldo di tutto il racconto, fa da sfondo alle solite epiche battaglie fra Dei sempre seminudi nonostante il freddo barbino delle terre nordiche. Ci sono due modi per affrontare il gioco. Abbracciare la sua nuova natura open world e quindi lasciar perdere la storia principale perdendosi tra i vari regni e farmando come un animale, oppure tenere la retta via e completare il gioco immediatamente, riservando la prima attività a tempi migliori. Io ho deciso di optare per questa seconda strada e ho terminato il gioco in poco meno di 35 ore. E forse ho sbagliato.

Sì, perché adesso che l’ho terminato non sento nessun bisogno di andare ad esplorare, non mi si rende necessario dover tornare ad Asgard per aprire porte magiche a conoscere i problemi di altri reami solo perché hanno bisogno della mia forza bruta. Lo lascio a chi ha voglia di platinare il gioco. Questo per dire che, nonostante sia imponente sotto ogni comparto, visivo, audio, e fotografico, God of Ragnarök lascerà traccia molto più per la sua storia, e la forza con cui inscena il complicato rapporto padre figlio, rispetto al gioco in sé.

Non dico mi abbia stufato, sarebbe troppo. Ma una volta completata la main quest, non ho trovato nuovi stimoli per affrontare altro. Forse perché le 100 ore e passa spese su Assassin’s Creed Valhalla mi hanno già saziato abbondantemente del boccone norreno.

Nonostante l’arrivo di una nuova arma, la lancia, il combat system non si discosta dal precedente capitolo, anzi, si aggiungono inutili e pomposi orpelli di potenziamenti della cui utilità difficilmente ci accorgeremo una volta sul campo di battaglia. Le sequenze dove quest’ultimo è protagonista risultano eccessive in termini numerici e alla lunga ripetitive, senza un’effettiva utilità ai fini della trama o sulla nostra meta finale.

La gestione della camera alle spalle di Kratos, poi, mi ha mandato più volte fuori di testa. Soprattutto se si decide di agganciare il nemico con R3. La camera ne punta uno e non lo molla. Se volete recuperare dell’energia o altri elementi utili al combattimento dovrete per forza sganciare il nemico, correre altrove e rotolare compulsivamente se no vi arriverà qualcuno alle spalle a darvi il colpo di grazia. Paradossalmente gestita molto meglio nei momenti in cui si controlla Atreus.

Mi sono piaciuti parecchio gli approfondimenti storici, gli intrecci creati ad hoc per posizionare Kratos e suo figlio nella mitologia scandinava e la ricchezza di elementi utili per poterla conoscerla meglio.

Non so dirvi se God Of War Ragnarök sia il gioco dell’anno passato. Sempre di più per me la trama e il racconto giocano un ruolo più che centrale nell’approcciare un titolo videoludico, benché badi spesso alle innovazioni apportate all’ecosistema (e solo per questo mi sentirei di premiare Vampire Survivors), mi sento di premiare maggiormente i primi. Perciò mantenendo i primi come parametri di giudizio essenziali direi assolutamente di sì, con anche lacrimuccia annessa nelle fasi finali del gioco.

Se invece devo soffermarmi a comprendere quale sarà il contributo di questo nuovo capitolo alla storia dei videogiochi, lì ho maggiori perplessità, e mi sento di dire che il suo predecessore abbia fatto molto di più.

Ma se è un’avventura single player da giocarvi con calma la sera, a più riprese, e avere la sensazione di immergervi in un romanzo quella che state cercando…beh, allora God Of War Ragnarök è il titolo che fa per voi.

★★★☆☆

The Last of Us - La serie TV

Le prime note della sigla sono già un brivido che pervade tutti i sensi. La colonna sonora di Santaolalla riaffiora ricordi di entrambi i titoli giocati di The Last Of Us.
Non farò un post per ogni episodio della serie, mi concentrerò sul primo e sull'ultimo di questa stagione, giusto per vedere l'affidabilità e l'adattamento rispetto il videogioco, benché online si leggano soltanto recensioni entusiaste e si parla del miglior mai fatto proveniente da un prodotto videoludico. Tra tutti Rivista Studio:

Soprattutto, la serie arriva in un momento e a un pubblico mai così ricettivi nei confronti di racconti pandemici e apocalissi imminenti (se una cosa la pandemia di Covid-19 l’ha cambiata davvero, è il modo in cui reagiamo a queste storie: fa sempre impressione avvertire dentro di sé il sollievo di chi sa che sarebbe potuta andare come in The Last of Us, chi lo sa. Per fortuna). The Last of Us ha tutto quello che serve, insomma, per essere il primo capitolo di una storia nuova. E, forse, l’inizio di una nuova epoca dell’industria dell’intrattenimento.

Anche se non avete mai giocato a The Last Of Us potete guardare tranquillamente la serie. Dal primo episodio, ma anche per tutti i seguenti, pare si segua pedissequamente quanto creato nel gioco. E non aspettatevi il classico show su zombie e pandemie. È soprattutto una storia tra due sconosciuti, Joel ed Ellie, che finiranno per amarsi come padre e figlia e questo legame avrà la meglio su ogni cosa.

Come vedrete nella prima puntata le regole sociali saltano in pochissimi minuti, da una quotidianità afosa e placida del Texas si piomba nell'inferno più nero di una pandemia portata da una mutazione del fungo Cordyceps, come anticipato 30 anni prima da un epidemiologo in TV. Narrativa prossima più che mai a quanto abbiamo vissuto un paio di anni fa, ma con note di morte e disperazione accentuate all’estremo. Si entra in un mondo governato dalla malattia e dalla legge marziale, dove nessuno lavora, ma tutti cercano di sopravvivere meglio che possono. È il mondo gestito dalla forza militare FEDRA contrastata dalle Luci, un gruppo sovversivo che agisce in nome della libertà e democrazia.

Se il primo episodio dimostra fin da subito un alto livello qualitativo, sia per la scelta della fotografia e degli attori (i due protagonisti arrivano da Il Trono di Spade, ma tranquilli questa volta il finale c’è e non lascerà delusi), The Last Of Us si candida subito dopo poche settimane dall’inizio dell’anno a serie del 2023. Non vedo l’ora di settimana prossima!

Caleidoscopio

Caleidoscopio (Kaleidoscope) è stata la prima mini serie del 2023 apparsa su Netflix. È autoconclusiva, non ci sarà cioè una nuova stagione e forse è anche questo tra le poche cose belle che ci lascia.

La trama è piuttosto basica. Una banda capitanata da Giancarlo Esposito e formata da sedicenti esperti ladri, organizza a NY un colpo al caveau più sicuro al mondo contenente 7 miliardi di dollari in obbligazioni sfruttando l’uragano Sandy del 2012. Basato su una storia vera a quanto pare. Per il protagonista è l’atto finale di una vendetta meditata per anni nei confronti del proprietario del caveau, l’amico che gli ha rovinato la vita.

Ma Caleidoscopio ha fatto parlare di sé non tanto per la trama, quanto per la possibilità lasciata dai registi e produttori di poterla guardare scegliendo l’ordine della visione degli episodi a proprio piacimento non andando ad influire sulla visione d’insieme della produzione.

La sequenza che ci è capitata è stata: Nero, Giallo, Verde, Arancione, Viola, Blu, Rosso, Rosa, Bianco. Ne esistono 40 mila possibili di combinazioni di visione e benché nel tuo cervello tu possa ricostruire abbastanza facilmente la trama senza rovinarti troppo con spoiler e colpi di scena, c’è chi consiglia l’ordine cronologico corretto come dice Il Post: Viola e continuare con Verde, Giallo, Arancione, Blu, Bianco, Rosso, Rosa. Anche se Bianco è pensato per essere l’ultimo, infatti, cronologicamente si colloca prima di Rosso e Rosa.

Tuttavia, guardarlo in un cert’ordine rispetto ad un altro, come dicevo, poco cambia ai fini della comprensione della serie. Quando i titoli di coda scorrono sul finale, saprai tanto dello spettacolo quanto tutti gli altri che lo guardano. Lo avrai semplicemente sperimentato in un modo leggermente diverso.

Il che lascia solo una domanda. Qual è il punto?

La cosa così frustrante di Caleidoscopio è che una volta che hai visto tutto e l'hai riordinato nel tuo cervello, è uno spettacolo piuttosto buono. Non è un dramma di prestigio di livello A, ma è abbastanza assurdo da rimanere divertente. Ma tagliato con l’accetta e scagliatoci addosso a caso, perde qualcosa. Ti affatica e non ne puoi parlare con nessuno perché loro avranno il loro ordine di episodi.

Forse è il modo in cui tutti i personaggi devono essere introdotti in modo molto sottile in ogni episodio perché potrebbe essere il primo che vedi. Forse è quanto sia anticlimatico ogni episodio perché i cliffhanger sono impossibili poiché per la natura del formato non verranno risolti. Forse è perché, nell'attuale finale cronologico, Esposito ha un momento di emozione così potente che tutto ciò che segue - incluso lo stesso finale pianificato - sembra un ripensamento.

Ci sono, insomma, un mucchio di flashback e flashforward lanciati in un frullatore e serviti senza pensare alla soddisfazione narrativa. Dimostra solo che è possibile attuare un approccio a puzzle ad essa, ma non che ci sia una ragione particolare per farlo. Bell’esperimento, non so quanto riuscito.

★★★☆☆

Balloon Museum | Pop Air

Un’esperienza dedicata ai più piccoli. Come tutti del resto.

Invecchiare al tempo della Rete

Ho letto il nuovo saggio di Mantellini tutto d’un fiato in questo giorno e mezzo di trasferta. Se nei primi suoi scritti ci trovavo tesi piuttosto azzeccate e figlie dei tempi in cui sono stati redatti, in quest’ultimo, dove il tema della vecchiaia fa da padrone, credo ci sia una profonda riflessione personale sulla sua condizione attuale in cerca di analisi. Probabilmente è la distanza d’età che ci fa vedere le cose in modo differente e tra qualche anno, rileggendolo, forse mi ci troverò, ma ecco il primo scoglio dopo poche pagine: come può uno zaino di pelle con dentro un computer o un taccuino essere segno di vecchiaia? Lo fanno tutti, a qualsiasi età in una settimana lavorativa qualsiasi su un frecciarossa diretto da qualsiasi parte.

Provo a dare la mia chiave di lettura, personale, da lettore, certo, ma anche da uno che è online dal 1994. Più che di vecchiaia, leggo di decadenza. Nessuno nei social network bada troppo all’età che una persona ha, bada ai contenuti, bada a quanto c’è scritto e a quanto ha condiviso. Continueranno a non esserci selfie postati da persone anziane? Pazienza, magari quanto scattato con l’obiettivo esterno del loro cellulare a bottoni enormi ha ancora qualcosa da dire ed è importante, e farà parte, si spera, di un continente altro e diverso dai social di oggi.

Ho quasi 20 anni meno di Massimo. Proprio quest’anno entro nei 40 e non mi sento un vecchiogiovane, il concetto che introduce per rappresentare chi in Rete ha passato l’età adulta ma non è ancora anziano. Non rigetto affatto i momenti spesi online, le foto che conservo gelosamente in archivio non sono lo specchio riflesso di un risentimento verso la mia età attuale e dalle quali mi allontano fingendo di essere chi non sono. Mi raccontano piuttosto di un tempo che non c’è più e lo reputo giusto. Online sento di vivere nella mia di bolla, nella mia nicchia come dice lui, costruita negli anni ed è basata sui miei personali interessi, al cui interno esistono persone di 18 fino a oltre i suoi 60 anni. E con tutti scambio visioni sul mondo in grado di arricchirci, spero, vicendevolmente. E sebbene anche io non sia più padrone dei nuovi linguaggi, dei nuovi comportamenti online e non li faccio miei per evitare il ridicolo, non mi sono mai scontrato con una barriera all’ingresso del tipo: ma come parla questo?
Per dire, proprio facendo riferimento a lui, non ho mai pensato a Massimo come a un’anziano, a un vecchiogiovane (nella sua accezione del termine) come a uno che finge, ma l’ho sempre considerato per il suo pensiero, le sue idee, ciò che ha condiviso e condivide con il mondo e non certo per i suoi dati anagrafici. Ed è questa la magia della Rete. Non perché si finge di essere chi non si è in realtà, benché Internet ci dia tutti gli strumenti per farlo.

Andando avanti nei primi due capitoli, poi, fa sue parole di altri, di altri tempi e altri contesti applicandole a un concetto che risulta essere troppo soggettivo, costruito soltanto dall’aver vissuto online dai primordi della rete, come tanti di noi del resto, e aver incasellato un certo tipo di esperienza, probabilmente negativa, in una finzione perenne dalla quale emerge un’operazione nostalgia dai teneri risultati.

Nel sottocapitolo dedicato ai The Beatles, ad esempio, ricorda come una cassetta di compilation della band inglese sia stata tra i suoi momenti formativi più importanti, si chiede se quell’episodio possa essere interessante per il lettore, ma senza spiegare minimamente perché quel momento è stato importante per lui e giustificare così il disinteresse generale per i ricordi, anche digitali, è un altro pretesto per forse ribadire quanto non si riconosca più un questo nuovo mondo digitale (?)

Il capitolo terzo invece affronta la questione come si sarebbe dovuta porre forse fin dall’inizio, ovvero nei termini dell’accessibilità tecnologica. Se nei primi due si è discusso implicitamente del contributo di una mente anziana, della quale resto comunque fermamente convinto sapere molto più di una giovane, al rumore di fondo della Rete, nel terzo si pone le giuste domande sul design degli oggetti, sulla probabile inaccessibilità tecnologica dovuta a barriere di aggeggi pensati per un’indefinita fascia d’età e che, se continuerà su quest’onda di innovazione, marginerà sempre di più gli over qualcosa, destinati a diventare la più ampia fetta della popolazione italiana.

Infine, il saggio si conclude con tre soluzioni proposte agli attuali e futuri anziani per resistere o sopravvivere alla tecnologia, o nonostante la sua presenza sempre più ingombrante. Opzioni però disponibili oggi, dove chi come me è ancora nella fase vecchiogiovane probabilmente avrà strumenti di apprendimento maggiormente adeguati rispetto agli anziani di oggi, figli della guerra, della miseria o degli anni immediatamente successivi dove fin dagli albori una scatola con un monitor a sostituire una macchina da scrivere spaventava molti.

In questo omaggio, fin troppo esplicito, a Natalia Ginzburg (che cita 37 volte), Massimo scorda forse anche di menzionare che la tecnologia e l’approccio ad essa sono anche la sintesi di un’operazione composta da due fattori: la volontà e il bisogno. C’è chi come mia moglie, che per molti aspetti invidio profondamente, che se potesse vivrebbe in una dimensione molto più analogica dell’attuale. Ed è più giovane di me. Di contro i miei genitori, quasi ottantenni, hanno ancora quello stupore magico nel capire come in autonomia possano guardarsi un film su una piattaforma OTT o chattare con gli amici su Facebook.
Sono i miei piccoli esempi di vita vissuta, una personale dimostrazione di come le barriere d’ingresso possano essere superate con un po’ di aiuto anche in casi disperati e mentre chi avrebbe tutti gli strumenti per farlo autonomamente, decide di abbandonarsi alla vecchiaia anticipata.

Ripeto. Probabilmente tra qualche anno, rileggendolo, mi troverò dietro lo stesso cannocchiale anagrafico, e potrò dire di aver finto per tutti questi anni di vita adulta e sentendomi emarginato dal mondo.
Fino ad allora continuerò a pensarla diversamente.

Si vola

Stamattina sono tornato a volare dopo un paio di mesi. Direzione Napoli. Entrando a Linate mi sono accorto di quanto in fondo gli aeroporti mi piacciono. I promoter American Express e la loro pesca senza sosta, gli addetti avvolgi bagagli ancora mezzi addormentati, le tante persone in viaggio chissà per quale ragione. Stranamente vuoto oggi. Ma l’Italia si sta ancora risvegliando dal torpore del panettone.

Quando sono sufficientemente in anticipo, come oggi, poi, mi piace vagare per le edicole e le librerie in cerca di qualcosa da leggere per il futuro; di solito annoto i titoli per poi cercare la versione eBook online.
Tra i tanti aeroporti visti negli ultimi due anni, Linate è quello che ha fatto maggiori progressi in termini di velocità ai controlli -credo sia il solo che non richiede di aprire i bagagli e non tirare fuori il computer- pulizia e varietà di negozi, ma soprattutto il Wi-Fi è decente e non richiede nessun tipo di registrazione.

Che se ci pensate poi, un aeroporto è un piccolo villaggio fatto di abitanti quotidiani che hanno effimere interazioni con estranei, ma tra di loro, quegli abitanti, si conoscono benissimo e tra i quali nascono amori, amicizie, invidie e litigi. Un super condominio con il tempo scandito dalle partenze e arrivi.

La calma lascia subito il posto al nervosismo nei corridoi dell’aereo. Una corsa a prendere il posto per il proprio forziere in cappelliera, a sedersi prima degli altri e altrettanta nel scendere quando ancora non si è nemmeno toccato terra.

Per fortuna c’è sempre una buona pizza ad attendere.

Un album a settimana

Ho trovato una soluzione molto spartana e fin troppo 1.0, ma per ora mi piace e continuerò così. Ho creato questa pagina, sarà sempre presente nel menu TROVA così da essere sempre disponibile a chi non ha il link di questo post sottomano.

L’elenco puntato vorrebbe corrispondere al numero della settimana, dove tendenzialmente vorrei consigliarne uno solo, ma capiteranno alcune settimane in cui ce ne saranno di più e a quel punto troverò un altro escamotage.

Detto ciò, il font del blog non supporta la visualizzazione della mezza stella per il sistema di valutazione. Ho deciso quindi di utilizzarne 5 in totale in modo da poter aver più libertà di giudizio. Aspettatevi quindi qualcosa del genere.

★☆☆☆☆
★★☆☆☆
★★★☆☆
★★★★☆
★★★★★

Ogni album sarà linkato tramite la piattaforma album.link così da potervi reindirizzare sulla vostra piattaforma di riferimento.

Buon ascolto. Questa settimana si parte subito con il nuovo album di Iggy Pop.

Social network e aerei

Oggi mi sono accorto di come ormai l’utilizzo personale di certi account social sia relegato al doom scrolling soltanto mentre sono in bagno. Non li apro più durante la giornata, non mi ci informo più, guardo solo delle cagate (appunto) allucinanti susseguirsi senza sosta. Talvolta mi strappano un sorriso, talvolta, ma molto di rado ci trovo qualcosa di interessante. No, non è colpa di chi seguo. È colpa dell’algoritmo, dei like fatti anni fa, dei secondi, minuti persi nei mesi addietro. Ho già fatto un enorme pulizia su Twitter un mese fa. Credo dovrò decidermi a farlo altrove. Anche se come detto penso d’ora in avanti di impegnarmi a scrivere tutto qui. Non posso ancora permettermi decisioni drastiche, ma sicuramente posso fare un po’ di pulizia e ordine personale.

Mi è capitato, per fortuna, il post di efrem. Presentava questa nuova compagnia aerea, che per ora fa pochissime tratte, i cui posti sono tutti in business class. Noi l’abbiamo provata l’estate scorsa durante il viaggio di nozze. È una roba dalla quale difficilmente puoi tornare indietro sui viaggi che superano le 7-8 ore. Questo post mi ha ricordato una domanda martellante di questa estate. Perché non possiamo viaggiare tutti più comodamente in aereo? Non dico una business class con tutti i comfort del caso. Servirebbe giusto allungare le gambe fino alla posizione orizzontale ed evitare alle persone di atterrare con la sensazione di essere stati chiusi in una scatola di cartone e percossi violentemente durante le precedenti ore.

Sì lo so. Servirebbero aerei più grandi e il business model di tante compagnie andrebbe a farsi benedire. Spero però in futuro le cose possano cambiare, sia in termini di prezzi sia in termini di accessibilità. Se c’è già qualcuno in grado di farlo, magari altre si muoveranno in tal senso.

Casualità

Mi piace pensare che talvolta le cose siano più collegate di quanto possiamo farci caso. Proprio due giorni fa parlavo di blog. Mancavo di dire come io continui a seguirne molti, e di molti ne sia affamato benché ne riesca a trovare di nuovi molto di rado. Ieri è successo. Leggevo un post di om.co su uno degli argomenti che più mi stanno a cuore, l’arte di esprimere se stessi e l’interazione in una community online, ed ecco il blog di Manuel.

È italiano e scrive in inglese, dice tante cose interessanti e ha implementato una pratica che lo è altrettanto. Incentiva a scrivergli un’email per entrare in contatto e restarci se possibile. Io l’ho fatto stamattina, abbiamo scambiato qualche chiacchiera e spero di continuare a farlo.

È forse quello che mi manca di più. Una community deve innanzi tutto essere questo. Accrescere l’un l’altro. Non c’è fattore maggiormente abilitante consentito dall’avvento di internet. Una piccola magia ormai in via di estinzione.

Ad ogni modo, se vuoi scrivermi anche solo per dirmi ciao, questa è la mia email.