Ora che Twitter ha cambiato padrone e che le regole del gioco stanno per cambiare, o sono in procinto di farlo, in tanti sono alla ricerca della prossima isola felice dove raccontarsi sempre le solite quattro cose con le sempre le solite quattro persone. È così, in Italia quantomeno, da quando è apparso il vero primo social ovvero friendfeed. Ci siamo spostati su Facebook ed eravamo gli stessi, idem su Twitter, Instagram etc.
Mastodon non risolverà il problema di Twitter, per certi versi lo complicherà, soprattutto per l’utente medio. Non è facile far capire il concetto di Fediverso e di stanze separate dove talvolta sono necessari anche account differenti. Eliminerà solo pubblicità fastidiosa e basta. La sintesi di Massimo è perfetta:
Tutte le volte che un social network amato da molti muore, o viene rovinato dai nuovi proprietari o viene colonizzato dai fessi o semplicemente passa di moda, ecco che qualcuno, legittimamente e con entusiasmo, propone agli indecisi (quelli che stanno pensando: me ne vado o resto?) un’alternativa altrettanto valida. Quell’alternativa è molto spesso sviluppata senza fini di lucro, molto spesso open source, con le medesime caratteristiche tecniche del social network amato e morente e anche alcune in più. Quell’alternativa, in genere, praticamente sempre, finirà per non interessare nessuno. Perché le persone in rete si radunano nei luoghi più disparati e assurdi ma sempre dove trovano altre persone come loro, e non dove la piattaforma è migliore. E nulla oggi esprime meglio dei luoghi in cui le persone si ritrovano in rete l’essenza dei tempi.
3.976. Sono i km che ci resterebbero per completare il giro della Terra. Sono quelli tra Napier, il punto più a est in cui siamo stati in Nuova Zelanda e Tahaa, il punto più a ovest nell’isola della Polinesia Francese da cui abbiamo fatto ritorno solo all’inizio di settembre. Fa effetto pensarlo, scriverlo ancora di più.
Ho iniziato a scrivere questo post ancora in Nuova Zelanda. Da qui più precisamente. Una casupola sperduta in mezzo alle verdi colline di Otorohanga. In effetti, nell’isola del Nord, ovvero quella che abbiamo percorso on the road questa settimana, sembra di essere più dentro lo sfondo di Windows XP che in una Nazione.
Nazione che sin dal primo istante ci ha tolto il fiato. Ancora prima di atterrare devo dire. In fase di rullaggio sulla pista di Sydney, un atroce dubbio si è insinuato nelle nostre menti: e se servisse la patente internazionale per guidare lì?
Per fortuna dopo quasi tre ore (giuro) di controlli su controlli, la polizia della biodiversità ci ha lasciati andare e abbiamo recuperato la nostra macchina a noleggio senza che nemmeno me la chiedessero la patente!
Non avevo mai guidato a sinistra prima d’ora e nemmeno ritirato un’ auto senza il controllo patente, forse han compreso il mio doppio disagio e ci han lasciato andare. Non è stato poi così complicato abituarmi, faccio solo ancora un po’ di fatica nelle rotatorie e inserire la freccia direzionale con la mano destra scambiandola per il tergicristalli.
La nostra Suzuki Swift del 2008, con su oltre 200.000 km percorsi e un po’ di ruggine qua e là, ci ha condotti per oltre 1000 km su questo percorso dove abbiamo coperto si e no 1/3 dell’isola del nord:
Auckland e Hobbiton
Auckland non ci ha entusiasmato, ma devo dire ci siamo rimasti davvero pochissime ore. Le cose interessanti in questo Paese non sembrano essere le città, piuttosto tutto quello che sta al loro confine. Tipo, all’interno del sobborgo Mount Eden c’è il cratere del vulcano Maungawhau e altri 14 coni vulcanici chiamati Tūpuna Maunga, un sito ancestrale carico di significato per la cultura Maori.
Ma da fan de Il Signore degli Anelli, soprattutto il libro, non potevo che avere come obiettivo quello di andare a Hobbiton. Hobbiton altro non è che il set utilizzato da Peter Jackson per realizzare La Contea nella trasposizione cinematografica del romanzo di Tolkien. Sebbene sia stato parzialmente smantellato dopo Il Ritorno del Re e la scena conclusiva con Sam e Rosie, La Contea ha ripreso vita per Lo Hobbit e da quel momento è stato deciso di mantenerla perennemente visitabile ai fan e curiosi. Un prodigio artificiale incastonato tra le verdi colline della fattoria Alexander. Tutto è manutenuto quotidianamente da una squadra di addetti dedicati soprattutto alla vegetazione (c’è anche un orto ad esempio) e a preservare il tutto al meglio. Non ci sono case visitabili purtroppo, anche se speravo tanto fosse vera almeno quella di Bilbo Baggins, ma tutte le scene interne sono state girate in uno studio di produzione a Wellington. All’interno della locanda Il Drago Verde però, vengono prodotte due birre in esclusiva e un sidro di mele gustabili solo lì e da nessun’altra parte. Se sei fan dei film, ti lascio alle immagini, non penso servano didascalie.
Rotorua, Taupo e Napier
Da lì ci siamo spostati verso Rotorua. Il primo dei due laghi che abbiamo incontrato sul nostro percorso. A Rotorua ci siamo dedicati a due attività principali. La prima la sera stessa. La foresta di sequoie Redwoods Whakarewarewa e più precisamente una camminata notturna fino a 20 metri d’altezza in sospensione: la Redwoods Treewalk. Qui abbiamo camminato per circa 700 metri sospesi attraverso un intricato sistema di 28 ponti agganciati a tronchi di alberi vecchi 120 anni. 40 minuti immersi nel silenzio e luci dove abbiamo scoperto come nessun chiodo è stato piantato per permetterci di galleggiare in quel percorso, e come la Nuova Zelanda fosse coperta per oltre il 90% di foreste prima dell’arrivo dell’uomo attorno al 1250 dalla Polinesia e successivamente dall’Europa.
La zona di Rotorua è famosa anche per la sua attività geotermale, al mattino successivo ci siamo così recati al piccolo parco Orakei Korako, solo perché il più famoso Wai-o-Tapu avrebbe aperto i battenti soltanto il 22 ottobre. Poco male, è stato sufficiente per ammirare uno spettacolo unico al mondo e scoprire poi che la Nuova Zelanda dipende per il 17% del suo fabbisogno elettrico dall’energia geotermale. Non male se si paragona all’Islanda con il suo 26%.
Nel pomeriggio ci siamo spostati verso Taupo dove abbiamo fatto una breve passeggiata fino alle cascateHuka. 220.000 litri d’acqua al secondo per 11 metri di cascata. Piccole, ma incazzate eh.
Infine abbiamo fatto tappa a Napier, il punto più ad est di questo nostro viaggio. Napier è situata nella Hawke’s Bay, la seconda regione per produzione di vino in Nuova Zelanda. Prima di arrivarci ho aperto Vivino per controllare, notando di aver assaggiato soltanto 5 vini neozelandesi prima d’ora e tutti provenienti dalla zona di Marlborough, la prima per produzione e particolarmente famosa per il suo Sauvignon Blanc. Napier e le 4 cantine visitate non hanno poi troppo da invidiare ai cugini del sud. Qui si stanno specializzando soprattutto sul rosé, Pinot Gris per i bianchi e Cabernet Sauvignon per i rossi. Tutte e 4 conoscono molto poco i vitigni italiani e si rifanno quasi totalmente a quelli francesi e al loro modo di conservare il vino. Nonostante il panorama possa suggerirlo, nessun filare di viti è coltivato su collina, ma tutte su terreno pianeggiante. Il motivo? Semplicemente questione di terreno. Spesso e volentieri gli appezzamenti scelti sono posizionati su letti di vecchi di fiumi.
Il nostro ultimo giorno, dopo averne passato metà di quello precedente in viaggio, ci ha condotto a Otorohanga. Qui abbiamo soggiornato in una dependance di una villa sperduta con verdi praterie e colline a perdita d’occhio solo per dedicarci a visitare le grotte Waitomo e Ruakuri. Uno spettacolo di stalattiti e stalagmiti di 30 milioni di anni. Rese ancora più uniche dai glowworms, larve che illuminano il loro apparato digerente per attirare ancora più cibo. Restano in questo stato di “stella” appese alle pareti delle caverne per circa nove mesi, per poi trasformarsi in crisalide e morire dopo 3 giorni di vita. La testimonianza che fossero delle caverne sommerse nell’oceano la si poteva distinguere ad occhio nudo grazie ai tanti fossili ancora intatti e ben visibili. Impressionate.
Amenità in una settimana
Sebbene abbiamo avuto pochissimo tempo a nostra disposizione, ho cercato di annotarmi tutte le stranezze o quanto di più insolito potesse catturare la mia attenzione. Partiamo dalla quotidianità.
I negozi chiudono molto presto. Tra le 16 e le 17.30 al massimo. Nel weekend ancora prima, mai più tardi delle 16. Ok ci sono eventualmente supermercati aperti fino alle 22 e talvolta le 24, ma sono una rara eccezione. Non so se questa è una decisione comunitaria a beneficio del singolo, del resto ho visto che mediamente qui hanno contratti da 37.5 ore a settimana, ma trovo sia propedeutico al loro stile di vita. Estremamente pacato, tranquillo e gioioso. Sì, come gli Hobbit. Si cena tra le 18 e le 19 massimo. Io non so se la ricetta per la felicità passa da qui, ma mi piace pensare così, da spettatore turista della vita dei piccoli paesi da noi toccati.
Tanti ragazzi portano il mullet, la musica che passa alle radio è quella di inizio anni 2000 forse massimo 2010. Una sorta di revival perenne che male non fa. Ci è capitato di incontrare temperature molto variabili nella stessa giornata, passando da 9 gradi ai 19 durante il viaggio verso Napier. Nessuna di queste è sembrata sufficientemente fredda da fermare qualcuno dal girare in maniche corte o pantaloncini, ma ancora più assurdo è stato vedere molte persone, sia adulti che piccini, girare a piedi nudi in centro città. Liberatorio.
Tranne ad Auckland, ho notato davvero pochissimi palazzi. Praticamente in tutto il tragitto abbiamo incontrato soltanto villette unifamiliari di svariate dimensioni, per lo più prefabbricati trasportati lì fatti e finiti. Di conseguenza mi aspettavo anche un massiccio utilizzo del fotovoltaico visto i molti giorni di sole nell’isola del nord, di contro ne ho visti pochissimi. Negli Airbnb frequentati abbiamo trovato solo stufette elettriche e impianti di condizionamento inverter. Probabilmente qui non risentono ancora di nessuna crisi energetica.
Il costo della vita mi è sembrato piuttosto abbordabile rispetto al nostro potere d’acquisto (uno stipendio medio annuo in Nuova Zelanda varia tra i 37.000 e i 38.000 euro). La benzina si aggira attorno ai 1.3/1.4 euro al litro, mentre abbiamo sempre pranzato e cenato in due con più o meno 50 euro totali. A proposito di cibo, non abbiamo incontrato un piatto tipico neozelandese su larga scala rispetto all’itinerario che abbiamo seguito, piuttosto abbiamo trovato ovunque queste tortine al cui interno ci sono i pasticci di carne più disparati.
E infine il silenzio. C’è un silenzio naturale come forse poteva esistere da noi centinaia di anni fa. Ti riconcilia con la natura, ti calma e accentua moltissimo tutti i sensi.
Māori
Dimenticavo un punto del nostro viaggio a cui tengo molto. La cultura Māori. Non siamo riusciti ad approfondirla molto e me ne dispiaccio. Avremmo voluto assistere a un’esibizione dedicata a questo, ma i biglietti erano terminati. Abbiamo cercato di rimediare per quanto possibile notando un manifesto per le vie di Napier. Si tratta della mostra fotografica itinerante Wāhine, donna in lingua Māori. Fortunatamente una delle tappe era ad Hastings, a pochi minuti da lì. Siamo rimasti abbastanza colpiti. La mostra fotografica in realtà è accompagnata da un’ audio guida composta da podcast, ognuno dei quali racconta sotto forma di intervista la vita delle donne raffigurate in foto. Abbiamo imparato di come tante di loro abbiano abbracciato la cultura Māori solo da adulte e come non sia stato affatto un processo semplice. Abbiamo imparato come alcune venissero affidate fino a non troppi decenni fa ai Pākehā, i neozelandesi nati da origini europee, se la loro famiglia non sarebbe stata in grado di badare a loro. Non è in un inglese di facile comprensione, ma le storie di queste donne, disponibili anche su Spotify, mi hanno appassionato a tal punto da voler scoprire tutto su questa cultura che nella sua forma ancestrale ci ha sfiorato solo in parte in Polinesia e ora qui in Nuova Zelanda con tutta la sua carica spirituale.
Spero di tornare presto…
È pericoloso, Frodo, uscire dalla porta. Ti metti in strada, e se non dirigi bene i piedi, non si sa dove puoi finire spazzato via.
Bilbo pronuncia queste frasi prima di lasciare per sempre La Contea. Questo cortissimo viaggio dall’altro capo del mondo mi ha segnato particolarmente. Forse per aver incontrato più pecore, mucche o cavalli rispetto a qualsiasi altra forma umana nel giro di ore di strada, forse perché avremmo fatto in totale 10 minuti di traffico in 6 giorni di automobile, forse perché essere spazzato via verso queste latitudini ci ha fatto ancora una volta riflettere su quanto di meraviglioso ci sia nel mondo e come un altro tipo di vita sia possibile. Può essere pericoloso, certo, ma vale la pena rischiare.
Conoscere, uscendo dalla porta, è tutto quello che ci resta per sentirci vivi e meno soli.
Qualche anno fa scrissi un post dal titolo “A bot made me a mixtape” in cui sostanzialmente mi ritenevo alquanto scettico sul non avere nessun cura dal tocco umano nel vasto mare dei servizi di musica in streaming.
Di fatto, il vero successo di Spotify (ah, a proposito, sapevi che il 13 ottobre esce una mini serie sulla sua fondazione su Netflix) si basa proprio sulla raffinatezza di un algoritmo talmente potente da non aver quasi bisogno di intervento. La cosa mi turba ancora oggi inutile negarlo. Ai tempi infatti utilizzavo esclusivamente Apple Music (oggi celebra 100 milioni di canzoni in piattaforma) che al contrario fa dell’interventismo un suo punto di vanto:
In Apple Music, la selezione umana è alla base di tutto ciò che facciamo: in modi evidenti, come per le playlist curate dalla nostra redazione, e in modi meno evidenti, come il tocco umano che guida i nostri algoritmi alla base dei suggerimenti. Ora più che mai sappiamo che l’investimento nella selezione umana sarà fondamentale per aiutarci a raggiungere l’eccellenza nel modo in cui mettiamo in contatto artisti e pubblico.
Innegabile. Ma poi mi sono imbattuto in questo articolo del Guardian. Ritrovandomi a pensare tutto il contrario. Da quando utilizzo esclusivamente Spotify e il suo algoritmo, soprattutto nella mia Discovery Weekly, ho scoperto nuovi artisti come mai prima. Ammetto che senza questo tipo di affezione nei confronti dei miei gusti musicali mai sarei stato in grado di arrivare a così tanta nuova buona musica. E no, non ci riuscivo con Apple Music fino a due anni fa. Anche se non è stata la ragione per l’averlo abbandonato completamente. Sì perché per quanto ci possano essere schiere di persone a selezionare e ricercare la chicca del momento, nessuno è in grado di conoscerti quanto un codice in grado di comprendere cosa ti piace per davvero. Quale stile ascolti e per quanti minuti al giorno. Consigliarti il nuovo album di un artista mai ascoltato prima solo perché affine ai tanti altri che hai salvato in libreria.
No, lo streaming non sta rendendo più difficile scoprire nuova musica. Sta rendendo forse difficile scoprirne fuori dalla nostra zona di comfort. Ma va benissimo così. A me di ascoltare il prossimo candidato agli Emmy per la musica pop interessa davvero poco. Soprattutto non scopro nuova musica su TikTok perciò per i quasi ‘anta come me Spotify resta un alleato essenziale per evitare di arenarsi nei vari Best Rock Songs Of All Time o Hard Rock Party.
Ad ogni modo, mantengo in vita in questo momento due playlist a mio uso e consumo personale, ma con le quali mi diverto molto. La prima si chiama Next Up.
Tendenzialmente funziona come una Story di Instagram. Non appena terminato l’ascolto quella canzone o quell’album sparisce dalla Playlist. C’è sempre e solo musica appena pubblicata.
La seconda invece si chiama SOUNDSGOOD.
Qui invece sto curando — in piena contraddizione con quanto appena scritto ovviamente — una playlist dei brani che amo di più. Ma siccome ho una memoria pessima e mi dimentico i titoli ho bisogno di molto tempo per lavorarci e completarla, ma man mano sarà sempre più ricca.
Se vi va, seguitele. Ci troverete solo buona musica hard-rock, alt-rock o indie-rock. 🎸
Tutto mi sarei aspettato oggi fuorché la notizia della chiusura definitiva di Google Stadia.
Sono triste, devo ammetterlo. Benché i segnali di un imminente decesso fossero ormai chiari da tempo non pensavo sarebbe finita così presto e in questo modo.
Sono founder member di Stadia e fin dal giorno di lancio nel 2019 sottoscrittore dell’abbonamento Pro. Sì, mi la promessa di un futuro senza console mi aveva catturato, un pensiero diverso finalmente in un mercato che proprio in quel momento accingeva a vedere la luce di due nuove console dal design enorme. E reputo la tecnologia dietro Google Stadia ancora oggi senza pari nel panorama del Gaming in streaming, senza dubbio. Eppure scelte strategiche poco comprensibili, la stessa Google poco dedita a sviluppare il brand Stadia fin da subito, hanno decretato la prematura fine di un servizio che avrebbe potuto contare, e non poco, da qui a qualche anno.
Discutibile tra l’altro la scelta di affidare questa notizia soltanto al blog ufficiale è nemmeno a un’email ufficiale. Consolatorio quantomeno la decisione di dar fondo alle proprie finanze e rimborsare tutti (sì tutti) gli acquisti fatti in piattaforma così come l’hardware annesso acquistato, come i controller e il Chromecast Ultra. Certo, gli utenti Stadia non sono molti per loro fortuna, ma sarà un bel bagno di sangue per Google.
Penso reinvestirò la cifra di tre controller e due Chromecast più un paio di giochi acquistati in un bel Steam Deck, la sola alternativa al momento per giocare a tutto, ora che sono rimasto orfano di una piattaforma on the go, visto i miei imminenti viaggi in arrivo.
Certo, xCloud e la connessione da remoto alla mia Xbox Series X di casa in combinata con il rinnovato PlayStation Plus e le nuove funzionalità di streaming mi permetterebbero di fare altrettanto, ma ecco ci vedo ancora troppe difficoltà nel far funzionare il tutto senza troppi sbattimenti e da pigro come sono Stadia rispondeva perfettamente a questo bisogno. Aprivi un browser su un device qualsiasi, login e si giocava.
Stadia morirà ufficialmente il 18 gennaio 2023. Se volete saperne di più circa i rimborsi, qui ci sono tutte le informazioni necessarie.
Nel mio feed RSS vedo fiumi di parole a cadenza quotidiana pubblicate senza sosta da nuovivecchi blogger. Non provo invidia, anzi, osservo soltanto e mi domando da dove trovino tanta ispirazione, tanto tempo libero per potersi anche solo appuntare tutto quel contenuto.
Forse sono io semplicemente ad aver smarrito l’ispirazione. O sono in una fase dove non ho proprio niente da dire. Già il fatto che lo stia scrivendo è una grossa ironica contraddizione. Ma resta un buon esercizio scrivere dello scrivere. Ne sento la mancanza. Spesso se mi domandano qual è il mio sogno nel cassetto rispondo senza esitazione di voler fare lo scrittore prima o poi. Tuttavia non ho una storia mia da raccontare, non ne ho ancora inventata una sufficientemente credibile, non so scrivere poi così bene e mi blocco ancora prima di provarci.
Se mi immagino uno scrittore, qualsiasi sia il suo genere, me lo immagino con già tutto in testa, alla costante ricerca di carta e penna per appuntarsi tutto con il fiato sul collo delle parole in fuga. Non posso immaginare possa essere un’azione pre-meditata. Cioè uno non si alza al mattino e dice…oooh, oggi scrivo il mio romanzo…No, è già tutto lì e lo deve solo tirar fuori da quella massa grigia tra le due sue orecchie. Correggetemi se sbaglio. Di scrittori non ne conosco nessuno personalmente, ma leggendo On Writing di Stephen King a me ha dato sempre quell’impressione.
Prima o poi ci arriverò. Del resto anche Tolkien è diventato famoso dopo i 50 anni. Mi resta ancora un po’ di tempo.
Benché abbia letto due volte il Signore degli Anelli e le sue appendici ricordavo ben poco delle vicende narrate ne Gli Anelli del Potere. La nuova serie Amazon si basa proprio su quest’ultime che non vengono raccontate in forma di romanzo, ma come appunti sulle ere precedenti narrate in quello che tutti abbiamo visto nei film di Peter Jackson.
La cifra stilistica de gli Anelli del Potere è potente e dritta al punto. Si basa su quanto contenuto nelle opere di Tolkien e non ci sono strani voli pindarici alla Game of Thrones. Il tutto incastonato in un universo che abbiamo imparato a conoscere ormai tanti anni fa e che ancora ricordiamo vividamente, fortunatamente ricalcato e ispirato senza scopiazzarlo in malo modo. Il mondo etereo degli elfi, la magnificenza delle montagne dei nani, i prati e i boschi de gli hobbit, l’aridità corrotta degli umani e il buio perenne degli orchi.
Ogni episodio sfiora la cifra record di quasi 60 milioni di dollari per una produzione completa della prima stagione di quasi un miliardo di dollari. Impressionante se si pensa che per i tre film del Signore degli Anelli sono costati ben meno della metà.
Per ora ho visto i primi tre episodi e al momento sembrerebbe che ci siano tutte le premesse per l’apertura di una nuova grande stagione per il fantasy in TV. Da una parte questo colosso che Amazon porterà avanti per almeno cinque stagioni, dall’altra le vicende narrate in Fuoco e Sangue nella nuova serie ambientata nel mondo di Game of Thrones, House of the Dragon (quest’ultima la guarderò soltanto dopo aver letto il libro dopo la cocente scottatura derivante dall’ultimo episodio del Trono di Spade).
Atmosfera giusta, musiche originali, costumi azzeccati, attori scelti con criterio e una sceneggiatura che per il momento sembra curarsi più dell’aspetto fantasy della storia che di qualunque altra esigenza.
Un paio di cose notate qua e là:
Gli elfi sembrano molto più umani. Soffrono e vengono uccisi con molta più facilità rispetto al Signore degli Anelli dove sembrano esseri sovrannaturali se messi vicino agli uomini, e soprattutto senza rughe.
L’OST di The Lord of the Rings mi manca tantissimo e la sua vivida iconicità è talmente tanto impressa nella mia mente che speravo sinceramente di ritrovarla in questo prequel temporale. Sobbalzo a ogni acuti di violìno sperando sia quello che pensò e invece no 🙁. E sebbene nella sigla iniziale de Gli Anelli del Potere venga scritto che le musiche di basano sul tema di Howard Shore, che ha composto il tema principale ma non le musiche della serie, purtroppo non riesco più a non associare alle vicende della terra di mezzo quel tipo di sound. Colpa mia.
La Galadriel giovane non ha lo spessore di Cate Blanchett mi spiace, stessa cosa dicasi per le protagoniste hobbit individuate. Sono poco caratterizzate rispetto a quanto troviamo nei libri e sembrano molto di più dei fauni o abitanti di un bosco fatato. Benissimo in nani e gli orchi, rimasti intatti nell’immaginario passato.
Ad ogni modo sembra proprio ci sarà da divertirsi, fino all’uccisione (apparente) di Sauron!
📲 Ieri è stata presentata la nuova gamma di iPhone. Semplicemente rinominati iPhone 14. Le due grosse novità sono state la sparizione, dopo due anni, di una versione Mini e la comparsa di una versione più grande per la versione base. La seconda arriva solo nelle versioni iPhone 14 Pro.
Bye bye notch, ecco che arriva Dynamic Island. Un bell’escamotage di design software per cercare di nascondere l’area della camera frontale e dei vari sensori e sfruttarla per un’interazione con l’utente abbastanza intelligente. Non ho paragoni con qualcosa di simile per Android, ma se ci fossero condivideteli pure.
Mi fa solo un po’ strano il voler giustificare con il potere forte del dollaro e l’inflazione il fatto che in U.S. i prezzi siano rimasti invariati perché il potere d’acquisto è più alto, mentre da noi in Europa, ad esempio, arriviamo anche ad aumenti che sfiorano i 500 a modello in alcuni casi.
he most surprising announcement of all, though, were the prices. Everything stayed the same! This was not what I, or close followers of Applelike John Gruber, expected at all. After all, Apple’s strategy the past several years seemed to be focused on wringing more revenue out of existing customers.
What this means is that in real terms Apple’s products actually got cheaper. Apple did, to be sure, raises prices around the world, but this is better explained by the fact the company runs on the dollar, which is the strongest in years; to put it another way, those foreign prices are derived from the U.S. price, and that price stayed the same, which means the price is lower.
🦘 Se penso al prossimo mese e mezzo ho i brividi. Sia per la mole di lavoro che mi sta stimolando tantissimo, sia per tutti i viaggi che mi (ci) attendono. Cercherò di condividerne qui i frutti piuttosto che altrove. Devo ancora raccontarvi della luna di miele in effetti, prima o poi arriverò a sistemare tutte le foto scattate e sarò pronto a farlo.
Apro gli occhi e non capisco ancora bene dove sono. So solo che è presto, fuori ancora è buio, guardo la sveglia e segna le 5. Solo dopo qualche secondo mi accorgo di essere nel letto di casa mia. Dopo 3 settimane.
Credo non sia mai accaduto in vita mia di aver dormito per così tanto tempo in un letto che non fosse il mio. Questo perché, anche quando lontano dalla mia abitazione principale per un periodo altrettanto lungo, spesso mi trovavo a trascorrere del tempo in una seconda casa, quindi pur sempre un ambiente familiare.
L’occasione è stata il mio viaggio di nozze, dopo quasi due anni di attesa. Due anni in cui tanti aspetti della nostra vita sono cambiati, turismo incluso.
Ora, non sono qui per raccontarvi i dettagli del mio viaggio (magari ci sarà un post ad hoc), ma solo per stendere qualche parola sul come ho viaggiato, quali sono state le mie aspettative e come esse siano cambiate in base alla disponibilità economica messa in gioco. Non ho potuto fare a meno di pensare al post di Roberta Milano suRoccaraso nel farlo. Nonostante non sappia nulla, o ancora meno, sul turismo.
Se c’è una cosa che questo viaggio mi ha insegnato è che il turismo è soprattutto una cosa, uno scambio di educazioni. Ricevute, da impartire, da condividere. Un pacifico scontro di culture tra chi ospita e chi è ospitato. L’equazione può funzionare soltanto se si è aperti con la mente, solo se si è pronti da una parte a comprendere le esigenze di chi ha fatto migliaia di chilometri per visitare un luogo remoto e inaccessibile a una grande percentuale della popolazione terrestre, dall’altra a non voler per forza ricercare la sensazione di essere a casa.
E sono tanti negli anni gli operatori del turismo che hanno puntato tutto sulla parola chiave: sentirsi come a casa. Ve le ricordate le pubblicità? Onestamente la reputo eccezionalmente lontana da quanto debba essere lo spirito di chi parte. Dovremmo ricercare tutto fuorché casa nostra, altrimenti non decideremmo mai di lasciarla dopotutto. Chi parte lo fa per lo più per due ragioni, rilassarsi o scoprire. E in entrambi i casi è spinto a farlo per trovare qualcosa che a casa propria non ha sufficientemente a disposizione: strutture, storia, geografia, cultura o enogastronomia.
Dovrebbe essere quindi piuttosto qualcosa come: il piacere di scoprire.
Ma come dicevo prima, bisogna necessariamente farlo con una mente aperta, attenta e motivata a voler conoscere e approfondire certi aspetti culturali, economici e sociali del luogo deciso di visitare. Perché? Semplice. Perché non è casa nostra!
Un esempio molto pratico? Il costo delle bottigliette d’acqua negli Stati Uniti. Entrando in un qualsiasi supermercato della California o delle Hawaii (i due Stati in cui sono passato in queste tre settimane), il prezzo di una bottiglietta d’acqua naturale può variare da 1,40 dollari più o meno per dell’acqua purificata per osmosi inversa (quindi non raccolta da una fonte alpina purissima per intenderci) fino a 12 dollari e passa per una confezione da 6 di 1lt. per dell’acqua purissima importata magari dall’estero.
Ora, se da turista non mettessi in campo la mia di educazione, e non parlo di buone maniere ma di conoscenza, farei soltanto dei paragoni con casa e sbotterei lamentandomi per dei prezzi altissimi per un bene primario come l’acqua. Mentre se provo a pensare alla difficoltà con cui, a differenza nostra, alcuni Stati non riescano a trovare acqua da fonti naturali, oppure al fatto che mediamente lo stipendio di un americano sia più alto del nostro ecco presto risolta l’equazione. Senza contare che basta spostare poco più in là lo sguardo e prestare attenzione a come ci siano fontanelle ovunque per poter ricaricare la propria borraccia.
Questo vale per l’acqua come per un ristorante, un hotel, una struttura ricettiva di qualsiasi tipo…tutto è dominato dalla stagionalità, dalla scarsità di alcune risorse e dalla legge della domanda e dell’offerta che, nella stragrande maggioranza dei casi, ha disponibilità per tutte le tasche e tutti i tenori familiari. Ma in un mondo dove le disparità saranno sempre più accentuate è inevitabile assisterne a sempre maggiori per poter accedere a servizi ed esperienze esclusive. Non possiamo lamentarcene, è il mondo che abbiamo costruito. Quello in cui viviamo oggi. In un baracchino di San Francisco magari pago un granchio poche decine di dollari, a Milano qualche centinaio.
È indubbio, l’equazione regge se anche dall’altra parte esiste una cultura dell’ospitalità e dell’accoglienza, un’educazione, in grado di soddisfare ogni portafoglio ed esigenza. Deve essere come la domenica di libero accesso ai musei per usare un metro di paragone. Il luogo che ha deciso di diventare meta turistica deve essere in grado di potersi mettere a nudo, lasciarsi scoprire senza timore. Ecco questa cosa è terribilmente complicata, perché vanno a scontrarsi il più delle volte interessi pubblici e privati che il più delle volte danneggiano non soltanto il territorio in cui questi attori agiscono, ma soprattutto l’ospite se non incanalati in uno sforzo comune.
Questa ampia introduzione mi è utile per raccontare meglio il come io abbia viaggiato rispetto al solito. Con 12 voli presi in 3 settimane di cui 5 in business class (su quelli di lungo raggio), l’aver soggiornato in strutture con almeno 4 stelle in su, aver potuto approfittare di amenities spicciole come un frigobar illimitato sono stati addendi di una somma piuttosto non comune rispetto al mio tenore di viaggio tradizionale, facendomi per la prima volta provare un turismo di fascia superiore al quale normalmente non sarei in grado di accedere.
Ed è molto facile scambiare questo livello per un nuovo standard a cui abituarsi. Chi non vorrebbe affrontare un viaggio aereo di 10 ore senza potersi più sdraiare completamente ora? Concettualmente adesso lo trovo incomprensibile. Perché non possiamo tutti viaggiare in questo modo? Eppure tra un mese tornerò a farne uno seduto in piccionaia.
È con le aspettative che dobbiamo scontrarci. Quelle foto che non corrispondono al vero, uno standard settato troppo alto, una serie di recensioni lontane dalla realtà o dall’altra parte con un turista che vuole la pasta al sugo e le lenzuola pulite ogni giorno, i distruttori di arredamenti o di arredo urbano, e potrei andare avanti con entrambe le liste all’infinito.
Per questo reputo così importante lo scambio di educazioni. È quel punto focale d’incontro tra le aspettative di chi parte per un sogno e chi quel sogno spera di renderlo reale.
Sapersi adattare a ciò può cambiare totalmente il come si viaggia, non importa se in business class o in bicicletta, il bagaglio che si riporta a casa sarà infinitamente leggero mentre per chi resta inizia un circolo virtuoso per condurre lì anche altri sognatori.
Anche io come Giovanni ho deciso pian piano di migrare tutto i miei dati fuori da Dropbox verso Google Workspace come già avevo raccontato qui. Tuttavia l’ansia perenne di perdere quanto di più prezioso mi accompagna da sempre e pertanto ero alla ricerca di un backup sicuro dove far risiedere tutto quello che c’è su Google Drive, che avesse un aggiornamento periodico e per cui mi posso dimenticare della sua esistenza fino a quando si presentasse una reale emergenza di perdita dati.
Dopo aver studiato bene la scena ho notato che proprio pCloud ha un’interessante funzionalità che nessun altro ha ancora a disposizione dei servizi rivolti all’utenza consumer (o almeno non sono riuscito a trovarne altri a meno di fare tutto manualmente). Ovvero la possibilità di eseguire backup periodici semplicemente accedendo al proprio account Google direttamente da pCloud. Questa è decisamente una manna, visto che ultimamente sono preso dal panico di perdere anni di documenti e dati sensibili.
Ho impostato così il mio flow. Un SSD LaCie rugged da 4TB collegato al mio MacMini dove risiedono tutti i dati, da qui c’è sync perenne su Google Drive che rispecchia fedelmente tutto il mio archivio. Il passaggio successivo è stato, appunto, acquistare anche io uno spazio lifetime su pCloud e semplicemente agganciarci Google Drive.
Un paio di annotazioni:
Il backup ha uno schedule mensile e purtroppo non si può cambiare questo timing
Su file molto larghi, nel mio caso sto facendo un backup di quasi 1.5TB, ci possono volere più giorni per completare l’operazione. Tuttavia non impatta in nessun modo sulle attività produttive
La cosa molto comoda è che pCloud offre anche un backup per Google Foto, che nel mio caso a sua volta pesca dalle foto di iCloud, creando anche qui una ridondanza che mi mette il cuore in pace.
pCloud ha un’interfaccia molto basica, ma davvero rapida. Facile da usare fa della sicurezza svizzera il suo punto di forza e il mercato ne riconosce l’affidabilità. Per cui mi sento di consigliarti caldamente pCloud, qui trovi il LifeTime Plan, sicuramente molto più conveniente che pagare ogni anno.