Civil War

Ieri sera siamo andati al cinema per la prima volta da quando ci siamo trasferiti in California. Abbiamo scelto quello più vicino a casa, AMC Dine-in.
Inizialmente non capivo bene in fase di prenotazione di cosa si trattasse, ma effettivamente è un cinema in cui puoi ordinare in anticipo la cena e ti viene seduta in poltrona mentre stai assistendo al film.
E più che una poltrona è una chaise longue dove è irrimediabilmente complicato non addormentarsi. Ho resistito per fortuna. In primis abbiamo deciso di mangiare a casa prima della proiezione e in secondo luogo Civil War ci ha tenuto svegli per fortuna.

Il film di Garland prosegue su due binari differenti. Sul primo lo scenario della guerra civile negli Stati Uniti dove California e Texas diventano Stati secessionisti volti a rivoltare l’unità attuale del Paese. Sull’altro la storia di due foto giornaliste in cerca dello scatto perfetto per raccontare ciò che sta accadendo. I due binari si intersecano in un viaggio che le condurrà sino all’interno della Casa Bianca per raccogliere l’ultima testimonianza del presidente americano.

Sebbene ci troviamo in medias res senza sapere le reali motivazioni che hanno portato a questo tipo di conflitto, gli echi con la situazione politica attuale statunitense sono forti. Il regista non si schiera, non schiera nessuno dei personaggi del film, ma prova ad estremizzare le opinioni polarizzanti che già quotidianamente qui occupano le news dei telegiornali.

Personalmente mi sono concentrato maggiormente sul secondo aspetto, quello della notizia ad ogni costo, anche, se necessario, voltando le spalle alla morte adiacente pur di documentare la realtà. Probabilmente una volontà di fare giornalismo che sta andando scemando con il passare degli anni.

Merita una seconda visione per cogliere tutte le sfumature intrinseche di alcune battute. Consiglio la visione, magari fammi sapere cosa ne pensi via email.

★★★★☆

Fenomenologia Substack

Un altro weekend di pioggia nel sud della California dopo una settimana di sole splendente. Ormai ci siamo abituati e cerchiamo valide alternative per ammazzare lo stesso il tempo.
Più tardi andremo a scoprire la biblioteca centrale di Los Angeles, domani al museo degli Oscar.

Nel frattempo stamattina mi dedico alla lettura degli arretrati su Feedly. Non amando particolarmente le newsletter e la sensazione di spam che generano nella mia casella di posta, trovo comodissima la funzionalità di Feedly di consentire di leggermele come se fossero feed RSS a cui abbonarmi.

Nell’ultima edizione di Lorenzo ho scoperto Giochetti. Nel riassunto del suo primo anno di attività (dovrò recuperare un po’ di arretrati visto che ci sono tematiche parecchio interessanti) Stefano Besi traccia quella che ai miei occhi appare chiaramente come il piccolo network di appassionati di videogiochi che non ha mai preso la voglia di scrivere.

È quello che si faceva qualche decennio fa con i blog. Ne più ne meno. Si creava una rete, si controlinkava sempre il contenuto degli altri per diffonderne la conoscenza e la rilevanza, ci si parlava spesso addosso, ma era uno dei pochi modi per ampliare il cerchio e tirare dentro altre persone con del contenuto da condividere, con qualcosa da dire insomma.

Non è cambiato niente. O forse è cambiato tutto.

Substack si è sostituita a Blogger e Wordpress. Con pochi click ti sembra di mettere in piedi una newsletter (ovviamente è così), ma in realtà stai facendo molto di più. Stai creando un sito. Stai creando un blog. E ovviamente per tanti significa anche e soprattutto (più che legittimamente) ricavarci del guadagno dal contenuto creato.

La principale differenza con qualche decennio fa sembra essere che l’uniformarsi e sottostare alle regole di una piattaforma centrale è il solo modo per avere un minimo di visibilità e di ritorno sul lavoro svolto senza dover impazzire più di tanto.

Solo che una scelta così radicale porta con se delle conseguenze. Se da un lato vi è la facilità d’uso, un ampio bacino di pubblico a disposizione e l’effettiva possibilità di creare una sottorete di contatti fatta di creator e lettori, c’è anche un importante rovescio della medaglia che non è possibile non ignorare.

Tralasciando i problemi di conduzione politica della piattaforma, nell’utilizzare qualcosa di non proprietario ma di altri, si sta concedendo a questa terza parte in qualche modo il comodato d’uso dei nostri dati o dei nostri contenuti. E a quanto pare non siamo troppo distanti da quel momento.

Comprendo fin troppo bene cosa comporterebbe diventare indipendenti, creare un nuovo spazio ex-novo dove ricominciare sostanzialmente daccapo. Ma con la possibilità di esportare i propri iscritti e continuare a comunicare con loro sinceramente inizierei a pensare a delle alternative valide.

Ed è forse anche per questo che nel momento di decidere su quale piattaforma puntare mi sono guardato bene dal non puntare su Substack. In primis perché io dal blog non ci guadagno nulla e non è mai stata mia intenzione e in secondo luogo, forse la punto focale di tutto questo discorso, ciò che scrivo è e deve restare mio e sotto il mio pieno controllo.

Ci sono fin troppi contenuti eccellenti su Substack che secondo me meriterebbero una sorte migliore che regalarsi a una piattaforma. Le opzioni esistono e seppur possano sembrare complicate non cambierebbero di una virgola l’eccezionalità di quei contenuti. Ma forse è terminato il tempo per gli ideali e di un web libero da padroni, quando sono ormai decenni che siamo schiavi delle piattaforme e abbiamo imparato da tempo a regalargli un pezzetto di noi.

Ai Pin è già un fallimento

Arrivano le prime recensioni di Ai Pin. Ti ricordi? Quel simpatico oggettino di cui ho parlato qualche giorno fa che promette di sostituire in toto il tuo smartphone alla modica cifra di $700.

Era da tanto tempo che non vedevo una lista così lunga di review negative su un oggetto tecnologico. E siamo solo al primo giorno di vita sul mercato...

Su tutte quella di The Verge:

Using the AI Pin feels like wishing on a star: you just close your eyes and hope for the best. Most of the time, nothing happens.

La lista di difetti sembra infinita: la batteria scalda sul corpo e quando si scalda troppo non è utilizzabile, ci sono problemi con il touch, il proiettore smette di funzionare in condizione di luce troppo elevata all’aperto, restituisce risposte con una lentezza spaventosa perché deve connettersi prima ai server humane, spesso ne dà anche di sbagliate, molte delle basiche funzionalità promesse non sono ancora disponibili.

Insomma un vero fallimento e ancora lontanissimo dalle promesse fatte, soprattutto per il costo proposto e per l’abbonamento mensile necessario per farlo funzionare. Un oggetto inutile uscito troppo presto e che ha distribuito soltanto vaporware e probabilmente farà incazzare chi avrà fatto preorder.

Nel 2024 non puoi permetterti di fare uscire un oggetto che costa quanto uno smartphone di alta fascia, convincere gli acquirenti sul fatto che quest’ultimo non sarà più necessario e dargli in mano una tecnologia rotta, lenta e che complica la vita invece di migliorarla.

Avevo questo sentore già dal primo post. Ora sto avendo solo conferme.
E purtroppo non c’è una seconda volta per fare una buona prima impressione.

La musica e il suo mercato stanno cambiando

Non so da quanto tempo stai leggendo questo blog, ma se mi segui da qualche anno magari ti sarai accorto del mio interesse per la musica e le piattaforme di streaming.

Di musica ne ascolto molta, forse troppa, e anche se questo non fa di me un esperto ho sempre cercato di comprenderne i mutamenti attraverso la voce di chi dall’interno la crea o ne cura lo sviluppo e la diffusione. Infine l’ho toccata anche marginalmente nel mio precedente ruolo in Italia curando la comunicazione per questi due eventi.

Probabilmente non è un settore in cui avrò mai interesse lavorare. Resta però tremendamente affascinante la tangente tra tecnologia e musica ed è anche argomento della newsletter di Andrea Girolami dello scorso 8 aprile.

Come scrive molto bene Andrea le piattaforme di streaming musicale sono ormai un treno in corsa difficile da fermare ed è bene anche ricordarne l’importanza:

Sono state proprio le vituperate piattaforme streaming (Spotify e soci) a salvare il mercato discografico dalla voragine in cui era caduto dopo l’arrivo di Napster e del file sharing nei primi 2000. Nonostante questo gli artisti continuano a pensarne tutto il male possibile.

Comprendo fin troppo bene la dinamica dei compensi che risiede dietro un singolo ascolto di un brano e di cui si sta parlando sempre di più ultimamente. C’è chi paga di più, c’è chi paga meno, ci sono le discografiche, ci sono i diritti e alla fine all’artista sembra di non guadagnare sufficienza dalla musica che produce. E quindi via a tutta una serie di collaterali necessari per la sopravvivenza: tour interminabili, merchandising, esposizione sui social.

Queste piattaforme ci hanno abituato ad accedere sostanzialmente a qualsiasi brano mai prodotto per una ridicola cifra se paragonata alla spesa destinata all’acquisto di album fisici di qualche anno fa. E da questa abitudine sembra impossibile tornare indietro. Chi ci vede lungo ha capito come aggirarla, come asservirla ai propri scopi e trarne il massimo vantaggio:

Più gli artisti si dimostrano capaci di appropriarsi del rapporto con la propria audience, creando community intorno i propri contenuti, e più riescono a catturare il valore rimasto nella musica, sottraendolo agli intermediari con cui hanno a che fare, dalle case discografiche fino alle piattaforme.

Non so dire se questo sistema resterà sostenibile per tanto a lungo, o se così facendo stiamo mettendo in pericolo la creatività di giovani artisti che decideranno semplicemente di abbandonare questo tipo di carriera artistica perché comprendono di non riuscire a camparci. E non ho nemmeno in mente una valida alternativa.

Non credo sia possibile affrontare la stessa strada che ad esempio i creator hanno scelto nel diventare indipendenti e farsi pagare un abbonamento per quanto condiviso online. Questo significherebbe sostanzialmente tornare al modello precedente, ovvero pagare a ogni singolo artista ogni singolo lavoro prodotto. Solo che:

Il mondo in cui gli artisti potevano decidere come e quando distribuire i propri contenuti non esiste più e oggi è il pubblico che detta il ritmo della musica.

Lo stesso pubblico che è ben felice di poter ascoltare tutto quello che vuole ad un prezzo modico, e, purtroppo per Blake e per il suo nuovo rivoluzionario portale, le cose non sono destinate a cambiare a breve.

Ma soprattutto c’è di mezzo Internet. Che ha reso il concetto del tutto gratis e subito onnipresente e dal quale le persone difficilmente si staccheranno, ma anzi, troveranno sempre nuovi modi per poter accedere a contenuti senza tirar fuori un singolo euro.

Il cortocircuito sembra essere in evitabile in qualsiasi direzione si guardi. E come per il resto dei contenuti si tratterà solo di vincere la battaglia per l’attenzione, resta da capire quali saranno gli strumenti e a quale prezzo.

All'Antico Vinaio di Venice Beach

Quando pensi a Venice la seconda parola che ti viene in mente è Beach, la sua spiaggia e tutto quello che le ruota attorno. La sua famosa pool dove fare skateboard, i campi da basket o all'area en plein air dove allenarsi e far brillare il sudore dei propri muscoli alla luce arancione rosa del tramonto.
Ma Venice è tanto di più. Basta andare nella direzione opposta a quella del mare. Addentrarsi nell'interno per scoprire perché davvero abbia preso il nome di Venezia. Qualche isolato e ti ritrovi all'intersezione di sei minuscoli canali che danno la vaga impressione di essere in Italia.

Non è tutto.

Venice procede oltre, si estende ancora un po', svolti a sinistra, passi Rialto Avenue e inciampi in una manciata di vie dal nome spagnoleggiante. Eccoti, sei arrivato al bordo obliquo del quartiere. Quella via quasi perpendicolare al mare è Abbot Kinney Boulevard.

È l’altra faccia di Venice, forse meno nota ai turisti, ma tanto apprezzata dai local. Un frullato di ristoranti green e alla moda, negozi fashion ancora più green e murales dalla fragranza hipster che mi hanno ricordato Wynwood a Miami. Tra un negozio sfitto e un altro, la bellissima passeggiata verso il tramonto ci porta all’Antico Vinaio.

Avevamo voglia di focaccia e di salumi quanto più vicini al sapore nostrano, e siccome dai mesi passati ci è rimasto un piacevole ricordo del punto vendita di Milano, dopo 40 minuti di camminata da casa ci è parso il giusto premio.

Il punto vendita è incastonato in un palazzo, è abbastanza piccolo, ma offre 4/5 posti sul bancone interno e ha alcuni tavolini esterni che affacciano sulla via e direi in totale una ventina di persone si possono accomodare tranquillamente.

Siamo rimasti piacevolmente sorpresi. Il gusto è praticamente intatto rispetto all’Italia così come i prezzi sono piuttosto lontani dallo standard californiano. E, a meno che non abbiate molta fame, probabilmente se siete in due è sufficiente dividere una delle focacce sul menu. La pasta della focaccia ci è parsa croccante e sufficientemente aderente alla “nostra”.

Gli ingredienti sono sempre freschi e mostrati sul bancone e allo stesso modo ci sono anche delle opzioni del mese fuori menu. Un’altra scelta interessante a livello di prezzo riguarda i drink. Estremamente basso rispetto a quanto siamo abituati. Sia acqua che soda sono prezzate a 2 dollari. Decisamente bene.

Quello di Venice è il primo punto vendita della California, ma presto ce ne sarà un altro in città sulla 6th. Proveremo anche quello. Per ora siamo estremamente felici di avere questo dietro l’angolo e se passate di qui e sentite mancanza di casa fateci un salto.

★★★★☆

Balatro: il gioco indie di carte meglio del poker

Ho sentito parlare per la prima volta di Balatro da Matteo Bordone nell’ultima puntata di Joypad. Essendo un gioco di carte ed essendoci una versione per Nintendo Switch mi sono subito fiondato sullo store e acquistato dopo poco.

Quando lo approcci per la prima sei portato a pensare che assomigli molto al poker anche se in fondo non lo è del tutto. Si inizia ogni partita con un mazzo da 52 carte, da cui pescherai e scarterai mentre assembli coppie, scale e colori etc., proprio come nel poker.

Ma quando inizierai a giocare, ti renderai conto che i semi e i colori delle carte sono solo la facciata che nasconde il vero scopo di Balatro: far salire il tuo punteggio il più in alto possibile.

Creato da uno sviluppatore canadese "LocalThunk", Balatro è sicuramente uno dei maggiori successi indipendenti di quest'anno al costo di solo 15 dollari (lo trovate su Switch, Steam, PlayStation, Xbox e a breve su iOS e iPadOS) ha venduto più di 500.000 copie in sole due settimane.

Il segreto del successo di Balatro è che, nonostante le meccaniche familiari, ha ben poco a che fare, come dicevo, con il poker. L’obiettivo qui non è fare grandi scommesse, bluffare o superare in astuzia gli avversari; si tratta piuttosto di prendere le decisioni migliori per ottimizzare le possibilità di successo nel corso di ogni partita.

Le basi

Ogni mano che giochi ti garantirà un certo numero di fiches, determinato da due numeri: la base e il moltiplicatore. Più forte è la mano, più alti saranno quei numeri: una coppia inizierà da 10 x 2, mentre un full ti darà 40 x 4. L’obiettivo in ogni round è superare un certo numero target che diventa più alto ad ogni round successivo (300, 450, 600...).

La cosa si fa addictive quando capisci che puoi manipolare tutte le variabili. Tra un round e l'altro verrai portato nello shop del gioco dove potrai acquistare Jolly, carte che cambiano la natura delle giocate successive. Un Joker potrebbe avere un'abilità semplice, come aggiungere +12 al tuo moltiplicatore ogni volta che giochi una doppia coppia. Un altro potrebbe cambiare completamente la natura del gioco, permettendoti, ad esempio, di fare scala utilizzando soltanto certi numeri o triplicando il moltiplicatore se giochi un tris.

Puoi anche acquisire le carte chiamate Planet che aumentano di livello ad ogni mano, le carte Tarocchi che ti permettono di migliorare o trasformare le tue carte e aggiungono altri metodi per manipolare il tuo mazzo. I jolly e gli altri potenziamenti vengono generati casualmente ogni volta che visiti il negozio, quindi dovrai adattare le tue strategie al volo in base a ciò che è disponibile nello shop.

Con alcune estrazioni fortunate e decisioni intelligenti, vedrai i numeri crescere esponenzialmente ad ogni turno, almeno finché non ti imbatti in un boss che ti distrugge disabilitando la tua capacità di giocare la stessa mano due volte.

Ad ogni mano cerchi costantemente di decidere come procedere. Ed è questo che lo rende così fottutamente intrigante. Dovresti scartare quel Joker che genera denaro in favore di uno che aumenterà il tuo moltiplicatore? Dovresti scommettere su una potente carta Spettrale che ti darà uno slot Joker extra ma ridurrà la capacità di carte delle tue mani?

Ecco, capito la dipendenza che può generare? E all'improvviso sono le 2:00 del mattino e ti rendi conto che devi svegliarti tra cinque ore.

Compralo se ti piacciono i giochi di carte

Balatro è brillante non solo nel fornire un ritmo di scelte interessanti, ma anche nel darti accesso a una serie di potenti combinazioni che ti fanno sentire come se stessi rompendo il gioco piegandolo alle tue volontà. Ed è forse un bene che abbia poco a che fare con il poker perché è semplicemente molto più divertente e soprattutto non si perdono soldi veri.

Se ti piacciono i giochi di carte, ovviamente soprattutto il poker, non fartelo scappare!

★★★★☆

IndieWeb Carnival: Sufficientemente Buono

Io non sono mai soddisfatto. Resto convinto che si possa fare sempre meglio. A tal punto che spesso fatico a gioire dei momenti felici. Ad apprezzare quelle piccole cose belle che a volte capitano nelle nostre vite.

E sì che considero i dettagli i pilastri fondamentali per giudicare ogni cosa, quindi dovrebbero colpirmi quei pochi momenti memorabili. Eppure mi rendo conto di perdere con l’andare degli anni la capacità di meravigliarmi delle cose. Forse capita a tutti, forse no, ma è spesso Noemi a ricordarmi di prestarci attenzione. Perché in effetti mi concentro troppo sul what’s next invece di wow-now.

È la mia natura, non posso lavorarci su, non è una cosa che penso di poter re-imparare di nuovo. E non si tratta di non essere mai felici di nulla, ma piuttosto la mia personale rincorsa a scoprire cosa c’è dopo. Forse perché mosso dalla fame di sapere e conoscere di più di quanto non sappia e conosca già adesso, combinato con l’ansia di non riuscire a portare a termine nulla.

Non significa non essere felici, attenzione, ma ha a che fare molto di più con la mia patetica voglia di voler sistemare il mondo. Ma certe cose sono così e basta e, nonostante gli sforzi e la cura nei dettagli, ci sono volte in cui non posso fare di più o aspettarmi di più.

Mi sembra di vivere la fase dell’accontentarsi come un fallimento. Quando di fatto non lo è. Perché facendo un rapido zoom-out sempre più spesso mi accorgo che accontentarsi vuol dire accettare, ma soprattutto accettarsi. E va bene così. Vuol dire imparare a lasciare e lasciarsi andare e quando me ne accorgo, allora sì, mi sento soddisfatto.

Questo blog ne è l’esempio vivente. Ho fatto sistemare a Manuel non so quante volte minuzie a cui solo io presto attenzione, ma che ai miei occhi apparivano come le più importanti in assoluto per poter scrivere qui dentro.

Quando in realtà la cosa migliore da quando sono tornato online è stata quella di diventare totalmente indipendente da qualsiasi piattaforma, concentrandomi sulla scrittura, e poter così partecipare anche ad iniziative interessanti come i temi mensili dell’IndieWeb Carnival, che proprio in aprile tocca quello del “Good Enough”.

Il concetto è molto semplice. Ogni mese c’è un tema a cui dare spazio, se si vuol contribuire è sufficiente scrivere e farlo sapere al blogger che ha lanciato il tema del mese e che ne sta raccogliendo le testimonianze.

Da come avrai capito, l’argomento mi sta particolarmente a cuore.

Fuori dal mondo

Settimana scorsa ho scoperto il blog di Adrianna Tan. Anche lei è un expat e vive a San Francisco.

Nel suo ultimo post tratta un argomento con il quale, in questi primi tre mesi qui, ci stiamo scontrando spesso. Oltre ai gradi Fahrenheit, il sistema imperiale per misurare tutto, è la prima volta in assoluto in cui percepiamo che talvolta le persone qui vivono completamente fuori dal mondo.

Cosa intendo?

Avere aggiornamenti riguardanti altri continenti è quasi impossibile a meno di guardare la BBC o se dovesse accadere qualcosa di tremendamente tragico (c’è qualche aggiornamento sulle guerre in corso in Ucraina e Palestina ogni tanto). Le notizie sono iper local, ad esempio ci sono almeno 3 canali diversi che parlano di quello che accade a Los Angeles, e il più delle volte sono aggiornamenti meteo. Non abbiamo ancora compreso questa ossessione per le previsioni del tempo, ma ogni 10 minuti almeno su KCAL news c’è l’intervento dell’esperta di turno. Forse perché qui si vive tanto all’aria aperta? 🤷🏼

Ho sorriso al test di Adrianna per capire online come gli americani guardano al mondo. Lo ha chiamato il test Walgreens. Chiede alle persone cosa risponderebbero alla domanda “dove ti recheresti a comprare uno shampoo o un detergente per la faccia?”. Le persone che rispondono Walgreens, benché lei abbia specificato di non trovarsi negli Stati Uniti, le fa capire subito che per molti non esiste un “mondo” diverso da questo, o nello specifico un supermercato diverso da Walgreens.

È successo anche a Noemi al lavoro. Ha spiegato ai suoi colleghi che in Italia non abbiamo il sistema del Credit Score. Loro per tutta risposta le hanno chiesto se in Italia abbiamo le carte di credito...🫣

Lo raccontavo già qui. Solo la California ha un’estensione maggiore dell’Italia e se penso a tutti gli Stati Uniti nella loro interezza mi rendo conto come la loro enorme vastità lascia poco spazio di interesse per ciò che accade al di fuori.

Non è una critica. Osservo divertito una Nazione dai tanti contrasti, ancora alla ricerca di un’identità nonostante il forte senso patriottico, ma con non più di 300 anni di civilizzazione alle spalle.

Già. Ora viviamo anche noi fuori dal mondo.

Perché non tornerò ad acquistare musica fisica o digitale?

La musica significa tanto. È pilastro fondamentale della mia esistenza e della mia quotidianità. È quasi sicuramente la mia droga se vogliamo fare questo tipo di similitudine, perché mi crea dipendenza e difficilmente riesco a rinunciarci.

Non ho vissuto l’epoca del vinile, ma nel crescere ho assistito a tante rivoluzioni tecnologiche (vincenti o meno) legate alla musica e le ho vissute tutte con gusto. La musicassetta, il CD, il Mini-Disc, l’mp3 e infine lo streaming.

“L’era” che preferisco? Quella attuale.

Ora, io non mi considero di certo un audiofilo (se non sai cosa significa va bene uguale, sappi che la passione per la musica può spingerti a spendere migliaia e migliaia di euro in attrezzature), ma mi piace ascoltare le canzoni al meglio della qualità che la tecnologia del momento e le mie finanze mi consentono.
Nel gli anni, soprattutto nel periodo in cui ho sfruttato il Lossless di Apple Music, mi sono dotato di diverse soluzioni fino ad approdare ad un DAC/AMP Sony e a queste cuffie. Prodotti all’apparenza costosi, ma credetemi c’è molto di più oneroso sul mercato.

C’è una piccola, ma costante crescita di chi ha voglia di ritornare ad controllo e a una qualità di ascolto antecedente a quella dello streaming che, soprattutto per gli audiofili, è una strada percorribile solo in pochissime direzioni (Qobuz o Tidal). Ho visto qualche YouTuber restaurare vecchi iPod, ma soprattutto tanti post come quelli di CJ Chilvers.

Persone che hanno deciso di tornare completamente al vinile o CD ed eliminare completamente i servizi di streaming o utilizzandoli soltanto per scoprire nuova musica. Io non condivido appieno, nello specifico, le sue tesi relative a un supporto fisico e cerco qui di spiegare perché:

  1. Cosa significa “serious listening” quando si tratta di musica? Un ascolto attento in cui si leggono le parole del testo? Si chiudono gli occhi e si medita? Io ascolto musica in qualsiasi frangente, al computer, camminando, mentre guido e per me è sempre un ascolto “serious”.
  2. La musica su CD è differente. Posso essere d’accordo. La qualità su CD risulta precisa quando si tratta di determinare il master specifico di quell’edizione dell’album che ci si sta apprestando ad ascoltare. Ma, perché non posso fare lo stesso con un file FLAC acquistato online?
  3. L’elenco delle tracce di un album è una forma d’arte. D’accordo anche qui. Non mi sono mai sognato di ascoltare un album con un ordine randomico e qui mi spiace ma i servizi di streaming difficilmente sbagliano e si può facilmente agire sulle impostazioni per avere un ascolto “gapless”.
  4. I CD suonano meglio. Sì, ma con quali dotazioni tecniche? E il tuo orecchio a parità di output è in grado di distinguere un CD da una traccia riprodotta da Qobuz in FLAC 24-Bit?
  5. Non voglio essere spiato mentre ascolto musica. Altro falso mito, su Spotify ad esempio si può impostare la modalità “Sessione privata” e a meno di avere un tier gratuito io non sono mai stato interrotto da niente nel momento dell’ascolto.
  6. È il media fisico col costo più basso. Se volessi comprare dei CD nuovi oggi, ad esempio quelli che ho ascoltato di più in vita mia, dovrei spendere circa 16€. Solo che se tengo conto di quanti album ho ascoltato “soltanto” in questi primi 3 mesi dell’anno... Dovrei moltiplicare il numero per 100. E già per solo questo motivo percorrere la strada del fisico è letteralmente impossibile a meno di non bruciare tutto lo stipendio solo in acquisto di album.
  7. L’arte del fisico e nessun supporto specifico per gli album. Qui non posso che dargli ragione. Gli amanti dei libretti che accompagnano i CD e nello specifico delle grafiche utilizzate per presentare la custodia con lo streaming si sentono sicuramente spaesati. Tuttavia esistono app che cercano di valorizzare proprio l’album come forma d’arte. Longplay e Album sono le prime due che mi vengono in mente.
  8. I CD sono il supporto fisico più duraturo. Sicuro? Sulla carta lo sono, ma esisteranno device per riprodurli che saranno ancora in vendita tra 20 anni? Provo a pensare ai lettori di cassette musicali o a quanti lettori CD io abbia ancora disponibili a casa...2...dentro le console da gaming. Altro falso mito secondo me.

Nel suo post CJ ha tanti altri punti che si mischiano con i precedenti. Sebbene il panorama dello streaming musicale sia una giungla fatta di diritti mancanti, qualità di riproduzione differente e costi tendenti a salire, il risvolto per il consumatore finale è sicuramente più roseo rispetto agli anni ’90.

Al prezzo di 2 CD al mese posso avere accesso ad almeno 2 servizi di streaming di musica differenti. Assumendo che uno sia Spotify che a fronte di una qualità audio pessima rispetto allo standard attuale, presenta un efficiente algoritmo per scoprire novità. Mentre il secondo può essere una scelta in direzione della qualità: Qobuz, Tidal ed Apple Music. Dotandosi della giusta attrezzatura e senza dover per forza di cosa trasformarsi in audiofili è possibile anche oggi godere della stessa qualità dei master di un CD senza dover spendere un capitale ogni mese.

Quali podcast ascoltare?

È innegabile che da quando si sono diffusi mi sia appassionato ad alcuni, pochissimi, podcast. Sono piuttosto selettivo, ma per una ragione banalissima. La voce e l’intonazione. Sebbene l’argomento trattato in un determinato podcast possa essere di mio grandissimo interesse, se la voce narrante e/o la sua inflessione dialettale (di qualsiasi regione eh) è estremamente marcata, io abbandono.

Pensavo di essere il solo con questo tipo di tarlo e invece scopro che anche Giulia ne subisce la snervante pressione. Dalla sua newsletter parlando di Elisa True Crime:

[...] gli accenti regionali ci stanno, ognuno ha il suo. Ma io non posso ascoltare tre interi episodi sull’omicidio di Annalaura Pedron (uno dei pochi casi di nera della provincia in cui sono nata, nonché forse l’unico che arrivi a lambire in qualche modo anche il minuscolo comune della Val Tramontina in cui ho frequentato le elementari) e sentire tutti i nomi di area veneta pronunciati con gli accenti sbagliati. Il culmine si tocca quando finalmente viene nominata la persona accusata credibilmente di aver commesso l’omicidio2, David Rosset3.

Tutti gli intervistati (dalla madre di Pedron al caporedattore del Messaggero Veneto Antonio Bacci all’investigatore che ha riaperto il caso): David Rossèt.
Elisa True Crime: Devid Ròsset.
L’ho presa sul personale. [...]

Mi sono piaciute tutte le produzioni di Pablo Trincia (alcuni lo trovano disturbante, ma l’enfasi può essere anche una buona cosa in un mezzo dove bisogna immaginarsi le storie narrate), Indagini è un piacere mensile, mentre sul fronte videogiochi Joypad e Gong! sono il mio rifugio nei miei tragitti in bici tra casa e lavoro.

Ne avete altri da consigliarmi che non siano con inflessioni troppo marcate?
Mi appassiona il true crime, le storie raccontate bene e in generale quando si parla di tecnologia e/o gaming.

Se hai suggerimenti, mandameli qui.

Grazie!